Recensione a “L’ultimo cliente” di William Lashner

“L’ULTIMO CLIENTE” di William Lashner

Recensione a cura di Beniamino Malavasi

C’è molto di Raymond Chandler, e un pizzico di Scott Turow, in questo legal thriller di William Lashner.

O, almeno, così sembra…

La narrazione in prima persona, il rapporto [amicizia?] che lega il protagonista Victor Carl all’Ultimo cliente Joey “Cheaps” Parma, l’essere al verde, il sentirsi soli contro tutti, financo l’inserimento nella trama di dark ladies come Chelsea e Alura; tutto il romanzo vuole far dire al lettore: Marlowe è tornato!

Magari! Perché ciò che Lashner dà a vedere è una sorta di canzonatura dello schema-Chandler. Va bene scrivere in prima persona, passi il senso del dovere verso il cliente [anche se defunto], ma Marlowe non si sognerebbe di lamentarsi di non avere soldi per la TV via cavo [ammesso che alla sua epoca esistesse], così come Kimberly Blue difficilmente comparirebbe in un romanzo di Chandler in un ruolo così “attivo”; per non parlare del fatto che Carl “ha bisogno” di una socia [o socio], bisogno che, invece, Marlowe non ha.

Anche l’etichetta di legal thriller dai più assegnata a L’ultimo cliente sembra stonare, specie considerando che, in tutto il romanzo, l’unico meccanismo procedurale menzionato [più volte] è quello prescrittivo di un reato…

E così probabilmente cade anche il richiamo a Scott Turow, nonostante il nostro protagonista sia avvocato penalista e si trovi, suo malgrado, a dover lottare contro il sottobosco che prospera in un tribunale.

Quindi cosa rimane? L’ultimo cliente è, perciò, da buttare?

No, anzi.

William Lashner ha meriti ed è giusto riconoscerglieli.

Innanzitutto riesce a tenere le fila di una trama complessa, vuoi per il numero dei soggetti agenti, vuoi per l’intersecarsi di obiettivi diversi che i “cattivi” di turno perseguono.

In secondo luogo Lashner riesce a coinvolgere il lettore doppiamente, ovvero non solo per quanto attiene la parte poliziesca del romanzo ma, anche, sul lato privato di Victor Carl, creando, tramite il padre ricoverato, la sub-trama della “ragazza con la gonna a pieghe”.

In terzo luogo, il ricorso al più volte citato scrivere in prima persona. Come insegnano nelle scuole di scrittura l’uso dell’“io” narrante è più difficile rispetto allo scrivere in terza persona. Invero l’”Io” implica che lo scrittore si ponga a livello del/si immedesimi nel lettore, di modo che ciò che vede/sa chi scrive è ciò che vede/sa il lettore, senza possibilità di porsi su un piano superiore/futuro, permesso, invece, in terza persona. E Lashner segue al meglio le regole di questa modalità narrativa.

Da ultimo, il finale [ci si riferisce al lato poliziesco del romanzo che, poi, è quello che conta; ma anche quello del lato “personale” può ben dirsi “furbo”…]: il Nostro Autore si dimostra scaltro, lasciando un pertugio per un possibile sequel

E, niente: buona lettura!