“LO STESSO MARE” di Amos Oz
Recensione a cura di Serena Donvito
La prima cosa che ho pensato una volta terminata la lettura di questo libro è stata: e come si recensisce un libro così?
Che parole si possono usare per descrivere un libro che mischia prosa e poesia?
Come puoi descrivere quella sensazione di cucchiaino che scava nella terra e nel tuo stomaco, ogni volta che Oz crea splendide similitudini per rappresentare le leggi della solitudine?
C’è un modo davvero efficace per trasmettere e spiegare l’aggressione da parte del dolore a cui permettiamo di entrare, seguita dalla consolazione che la libertà ci regala e che queste righe rappresentano?
Quest’opera è impegnativa; probabilmente rientra nella categoria del o si ama o si odia, e io l’ho amata, per come mi ha fatto sentire.
Sembra che Oz sia nato per farmi apprezzare tutto ciò che in genere odio.
Odio le descrizioni, ma le sue non smetterei mai di leggerle. La poesia non fa per me, non mi attira, non mi appassiona, ma in questo libro ha trovato un modo talmente particolare e intimo di proporla, che ne sono rimasta incantata.
La penna di Oz non è semplice, ferisce, lo fa delicatamente ma ferisce, e scava senza sosta, ti lascia senza respiro e vorresti smettere, invece continui, giri pagina e ti abbandoni, ti lasci inghiottire perché sai che, alla fine, sarà lui stesso a riportarti in superficie, e lo ringrazierai per quel viaggio che tanto ti ha fatto comprendere.
“Sera. Piove sui colli deserti.
Deserto: tufo e dirupo
odore di terra bagnata dopo un’estate di sete. Viene una voglia:
essere ciò che sarei stato se avessi saputo ciò che è dato di sapere.
Esistere prima d’ogni cognizione. Come i colli. Come un sasso di luna.
Inerte e sicuro
di decantazione illimitata.”