Recensione di “Gli ultimi giorni di quiete”

“GLI ULTIMI GIORNI DI QUIETE” di Antonio Manzini

Descrizione

Questo romanzo mette al centro di una vicenda amara e appassionante una donna, Nora, che sta tornando a casa con un treno interregionale. Seduto su una poltrona, non distante da lei, c’è l’assassino di suo figlio. L’uomo dovrebbe essere in prigione a scontare il delitto, invece è lì, stravaccato sul sedile. Dal giorno della morte di Corrado, Nora non si è mai data pace. Ora deve portare l’orribile notizia a Pasquale, il marito, col quale a malapena si parla da cinque anni. La vita di entrambi è finita da quando il figlio è stato assassinato da un balordo durante una rapina. Comincia così un calvario doloroso e violento, un abisso nel quale Nora precipita bevendo fino all’ultima goccia tutto il veleno che la vita le ha servito. Non può perdonare e accettare il figlio sotto una lapide e l’omicida in giro a ricostruirsi un’esistenza. Di chi è la colpa? Dove inizia la pietas e dove finisce la giustizia? E chi ha davvero il diritto di rifarsi una vita, quelli come Nora e Pasquale, che non riescono a smettere di soffrire, o chi ha sbagliato, ha ucciso un innocente e poi ha pagato la sua pena con la società? Forse non esiste un prezzo equo, un castigo sufficiente, per aver cancellato un’esistenza dal mondo. Dieci o venti anni di galera, sicuramente il prezzo per Nora e suo marito non è calcolabile; la giustizia fa il suo corso, vittime e carnefici si adeguano, ma non sempre. Almeno Nora tutto questo non l’accetta. Per lei quel giorno di viaggio in treno sarà «il primo giorno di quiete».

Recensione a cura di Antonella Raso.

Ho da sempre apprezzato Antonio Manzini e le Indagini del suo Rocco Schiavone, ma in questo romanzo ho trovato un Manzini diverso.

La sua narrazione mi ha colpita al cuore, poche righe e si è già nella storia e il mio stomaco ha avvertito i sentimenti di chi le vive, le emozioni. I luoghi sono descritti a pennellate larghe e non delineate eppure è come essere lì sul posto, nel bar, sul treno, e tutti i piccoli personaggi sono persone che conosciamo e che abbiamo incontrato.

Riga dopo riga mi auguro che arrivi un finale giusto e, infatti, eccolo! Come in tutti i libri di Manzini, giunge pochissimo tempo dopo l’inizio della lettura perché i suoi libri si leggono tutto d’un fiato, anche se lasciano dentro emozioni che non vanno più via.

Tre vite che si incrociano. Una rara capacità di introspezione psicologica. Tante domande lasciate aperte, senza risposta. Trattando temi quali  amore, giustizia, vita, destino, si intuisce la sofferenza e l’ansia della situazione fino ad arrivare all’epilogo, in parte tragico, in parte aperto ad un nuovo futuro. Vita e morte allo stesso tempo.

“Restava il fatto che lui l’aveva urlato in faccia solo a Danilo e a nessun altro. Perché era un mezzo deficiente, perché in fondo, da qualche parte nella sua coscienza era forte la convinzione che la vita di suo nipote valeva meno della vita di qualsiasi altro essere umano. Convivere con quel pensiero non era facile, aveva scoperto quel piccolo nucleo esplosivo che molti esseri umani hanno che se eccitato e innescato si spacca, deflagra e ci fa dare il peggio di noi; ci trasforma in belve che si scagliano addosso ai diversi, ai deboli, agli emarginati. E fra un po’ considererò l’eugenetica come una ricerca non del tutto disprezzabile.”

 Quando ci viene tolto qualcuno di caro è impossibile non cadere in un abisso insormontabile. Io, avendolo provato in prima persona, ho apprezzato molto questo scritto, pertanto lo consiglio col cuore.