Recensione di “Le sirene di Baghdad”

“LE SIRENE DI BAGHDAD” di Yasmina Khadra

Recensione a cura di Serena Donvito

Questo è il secondo libro che leggo di questo scrittore. Sì, scrittore, perché, in realtà, dietro al nome Yasmina Khadra troviamo Mohamed Moulessehoul.

Quando aveva solo nove anni, Moulessehoul è stato reclutato alla scuola dei cadetti e, con il tempo, è diventato ufficiale superiore dell’esercito algerino. Dopo l’uscita dei suoi primi libri, ha deciso di avvalersi di uno pseudonimo per sfuggire alla censura. Solo nel 1999, dopo aver lasciato l’esercito, ha svelato la sua vera identità.

“Eravamo poveri, umili, ma in pace. Fino al giorno in cui la nostra intimità fu violata, i nostri tabù profanati, la nostra dignità trascinata nel fango e nel sangue… Fino al giorno in cui, nei giardini di Babilonia, selvaggi bardati di granate e manette sono venuti a insegnare ai poeti a diventare uomini liberi…”

Su “Le sirene di Baghdad” è poco quello che si può dire: bisogna leggerlo. È una lettura tristemente lucida, che si racconta per urlarci il suo dolore, lo stesso in cui subito dopo si richiude, tornando ad avvolgersi di silenzio e lasciandoci fuori, spettatori di ciò che non possiamo pienamente comprendere.

Ci troviamo in questo sperduto villaggio nel deserto iracheno, con gli abitanti che sembrano quasi non avvertire cosa accade intorno a loro. Si illudono di essere lontani da tutte le brutture che colpiscono il Medio Oriente. Fino a Kafr Karam, nessuno ha voglia di spingersi. Ma si sbagliano, perché un giorno, durante una festa di nozze, un missile si abbatte sulla sala delle feste. Inizia così a crescere in loro la voglia di vendetta mascherata da giustizia; prendono il via i primi disordini, che portano i soldati americani a perquisire le loro case in cerca di armi. Ed è così che assisteremo all’evoluzione di un giovane beduino di vent’anni che, se prima non sopportava la violenza e la vista del sangue, ora non aspetta altro che poter vendicare l’offesa che è stata arrecata alla sua famiglia.

“Guardavo le ambulanze raccattare brandelli di carne dai marciapiedi, i pompieri evacuare gli edifici distrutti, i poliziotti interrogare gli abitanti del quartiere. Le mani in tasca, dimenticavo me stesso per ore e ore. Iniziandomi all’esercizio della rabbia. Mentre i parenti delle vittime alzavano le mani al cielo urlando il proprio dolore, mi chiedevo se sarei stato capace di infliggere ad altri le stesse sofferenze e mi rendevo conto che quelle domande non mi scandalizzavano. Rientravo in camera in pace con me stesso.”

Moulessehoul ci offre un racconto imparziale, fa di tutto per farci comprendere cosa scatti nelle menti di un popolo che pensa di essere stato liberato, ma che in realtà ha solo cambiato oppressore, perché:

“…in tempo di guerra il beneficio del dubbio privilegia l’abuso a discapito del sangue freddo, si chiama legittima difesa…”

Questo scrittore ha la capacità di disegnare nelle nostre menti le storie dei suoi protagonisti; dopodiché lascia a noi il compito di collocarli dalla parte dei buoni, o dei cattivi.

“Cosa lascio? Cosa porto con me? I miei fantasmi mi seguiranno, i miei ricordi sapranno cavarsela senza di me?”