Recensione di “Le rondini di Kabul”

“LE RONDINI DI KABUL” di Yasmina Khadra

Recensione a cura di Serena Donvito.

Atiq, Mussarat, Mohsen e Zunaira. È attraverso i loro occhi che vivremo Kabul e la sua gente. Persone senza identità che si sono abituate a vivere una terra che è stata violentata, snaturata, dove ridere non è permesso, dove la gioia non è contemplata, dove anche le preghiere sono comandate e dove nulla è più rilevante dei discorsi del mullah.

“Le terre afghane sono solo campi di battaglia, deserti di sabbia e cimiteri. Le preghiere si frangono nella furia dei mitra, ogni sera i lupi ululano alla morte e il vento, quando si alza, affida il lamento dei mendicanti al gracchiare dei corvi. Tutto sembra arroventato, fossilizzato, folgorato da un sortilegio innominabile. Il raschiatoio dell’erosione gratta, scrosta, sgrossa, livella il suolo necrotizzato, innalzando impunemente le steli della sua forza tranquilla. Poi, senza alcun preavviso, ai piedi di montagne rabbiosamente tosate dal soffio delle fornaci, sorge Kabul… o meglio, quel che ne resta: una città in avanzato stato di decomposizione.”

Un’altra lettura da pugno nello stomaco, di quelle che rappresentano il punto di partenza per considerazioni che affollano la mente e spingono ad analizzare la propria vita.

Questi personaggi vivono ognuno a loro modo la dittatura a cui sono sottoposti. Già, dittatura… Una parola di cui spesso si abusa, perché la libertà di cui godiamo non ci dà, fortunatamente, modo di comprenderne il reale significato.

La libertà per noi donne di vestirci come vogliamo, e non con

quella tenda ambulante che è il simbolo della sua destituzione e della sua prigionia, con quella maschera graticciata intagliata nel viso come caleidoscopiche grate…

La libertà di uscire con la persona da noi amata e poterla tenere anche solo sottobraccio, ridere, senza venir colpiti da un manganello perché:

“Non si ride per strada, se vi resta un briciolo di pudore, tornate a casa…”

La libertà di parlare con chi vogliamo e quando vogliamo, senza che ci venga detto di

“Non parlare in presenza di un estraneo…”

La libertà di poter camminare per strada da sole, senza il timore di essere fermate e accusate di ribellione.

Le tirannie a cui sono sottoposti i protagonisti di questo bellissimo romanzo vengono da loro affrontate in modo diverso e personale, ma ciò che ognuno di loro riesce a trasmetterci è che, purtroppo, stando giorno dopo giorno a contatto con il marcio, rischiamo di venirne risucchiati e piano piano influenzati, fino a commettere azioni che mai avremmo immaginato di poter compiere.

Tutto questo è avvolto da una descrizione poetica e lacerante di Kabul e del

“cielo afghano, in cui si tessevano i più begli idilli della terra, fu coperto da rapaci blindati: la sua azzurra limpidezza fu zebrata da strie di polvere e le rondini, sgomente, si dispersero nel balletto dei missili. La guerra era lì. Aveva trovato una patria…”