Recensione di “Le pareti della solitudine”

“LE PARETI DELLA SOLITUDINE” di Tahar Ben Jelloun

Recensione a cura di Serena Donvito

Questo libro è il frutto dell’esperienza che l’Autore, negli anni ‘70 del secolo scorso, ha fatto in Francia presso un centro per malattie psicosomatiche, dove, in qualità di psicologo, ha incontrato molti immigrati.

Il protagonista è “Momo”, un giovane immigrato nordafricano.

Usando questo personaggio, inventato e creato grazie alle storie che ascoltava al centro, Jelloun ha dato vita al romanzo in oggetto e, contemporaneamente, voce a chi non ha la possibilità di parlare.

“Il sole ha cacciato le dita nella cenere di una nuvola che mi separa dalla vita. Da qualche tempo la mia vita è quella di un albero strappato dalle radici. Seccato ed esposto in una vetrina. Non sento più la terra. Sono orfano. Orfano di una terra e di una foresta. Non sanguino più.”

È una lettura che si può affrontare solo se disposti a spogliarsi di ogni tipo di pregiudizio, più o meno consapevole.

È un libro sporco ma poetico, a tratti spietato; pensieri disordinati e confusi come solo la vita sa essere. Ciò che è scontato è negato: la normalità, la stabilità, non sono concesse. Si nascondono i veri sentimenti, per pudore o paura, quasi che a provarli si stesse commettendo reato, come se anche solo respirando, si stesse violando una regola non scritta.

Il senso di appartenenza viene tranciato, il desiderio di radici e calore umano si trasformano in un lusso impossibile da raggiungere, così, non rimangono che le parole, riflessioni dolorose e sparse, con la speranza che qualcuno le ascolti, le capisca, e trasformi lo sguardo accusatorio in occhi che comprendono e accolgono.

“Non fate del mio corpo una statua pallida e livida. Fatemi invece un canto di voluttà e di grazia che vada di città in città a scacciare la solitudine. Non immatricolatelo, questo corpo, in nessun posto. Lasciategli tutti gli orizzonti. Non rivendica altro che il riso e l’ebrezza della danza. La sua memoria dovrà trovar pace in una più grande tenerezza.”