“LA LUNA E I FALÒ” di Cesare Pavese
Recensione a cura di Beniamino Malavasi.
Nel corposo saggio introduttivo al romanzo de quo, il noto linguista e accademico Gian Luigi Beccaria afferma, tra l’altro, che:
“Pavese non compone un’autobiografia. Svolge il grande tema del ritorno alle radici, al luogo dove si nasce e si muore… Il romanzo è montato come un continuo andirivieni tra il piano della contemporaneità e il piano del passato.”
Ancora, in quarta di copertina si legge:
“Pubblicato nell’aprile del 1950 e considerato dalla critica un capolavoro, La luna e i falò è l’ultimo romanzo di Cesare Pavese… Storia semplice e lirica insieme, costruita come un continuo andirivieni tra il piano del passato e quello del presente, La luna e i falò recupera i temi civili della guerra partigiana, la cospirazione antifascista, la lotta di liberazione, e li lega a problematiche private, l’amicizia, la sensualità, la morte, in un intreccio drammatico che conferma la totale inappartenenza dell’individuo rispetto al mondo e il suo triste destino di solitudine.”
Ora, terminata la lenta (troppo, per la verità) lettura di questo libro che cosa rimane?
Il vocabolario della lingua italiana definisce “capolavoro” come la migliore opera di un artista.
Tale definizione si attaglia a La luna e i falò? Se collochiamo il romanzo in quel preciso contesto storico nel quale è stato concepito e scritto, e lo riconduciamo all’esperienza di vita vissuta dell’Autore (non dimentichiamo che, lì a pochi mesi dalla sua pubblicazione, Pavese morì suicida), allora, forse, la risposta potrebbe dirsi positiva.
In effetti, a ben guardare, il romanzo in questione (esso come tanti altri libri celebri e osannati) è intrinsecamente legato alla sua epoca e alla vita del suo Autore, e la sua comprensione non può esulare da esse.
E vien da dire che esso offre più del citato tema del ritorno alle radici, peraltro asse portante della trama.
È una fotografia nitida della società agricola italiana (Langhe) a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, con il netto distacco tra i ricchi proprietari terrieri e la bassa manovalanza (alla quale appartiene Anguilla, il narratore delle vicende e alter ego dell’Autore); è la presa di coscienza delle ferite provocate dalla guerra civile post ’43; è il tormento interiore di Pavese circa la sua esperienza politica; è un addio alla vita dell’Autore dopo essersi riconciliato (il ritorno “a casa” di Anguila dopo essere emigrato negli Stati Uniti d’America) con il proprio passato.
La penetrazione nel testo non è immediata: Pavese, in una sorta di esercizio di stile (v., amplius, il saggio di Beccaria sopra citato), adotta un linguaggio suo, ricorrendo spesso a termini locali, quasi dialettali.
Ne discende che anche il ritmo narrativo non può dirsi elevato, bensì ponderato, lento, che induce alla riflessione e non a girar pagina per vedere come finisce.
La luna e i falò è un romanzo tutto sommato breve, così come brevi sono i capitoli con i quali l’Autore l’ha suddiviso. Verrebbe da dire: qualità e non quantità.
Quindi, alla domanda inziale – terminata la lenta (troppo, per la verità) lettura di questo libro che cosa rimane? – cosa si può rispondere?
Un senso di tristezza, di ineluttabilità, di passato che non si cancella, senza futuro.