“IL NOME DELLA ROSA” di Umberto Eco
Recensione a cura di Beniamino Malavasi.
A una quarantina d’anni dalla prima pubblicazione, cos’altro si può aggiungere a “Il nome della rosa” che non sia stato già detto?
Quello in esame è, invero, libro letto, studiato, sviscerato in ogni sua pagina; di conseguenza: cosa manca?
Di sicuro un suo commento attuale vede ridotto al minimo il rischio di spolier (termine inglese che sta a indicare messaggio che anticipa il contenuto o il finale di un libro o di un film), parola tanto cara quanto temuta da ogni operatore nel mondo dell’editoria; e ciò anche grazie a una celebre trasposizione cinematografica seguita, in tempi recenti, da una rappresentazione in forma di sceneggiato televisivo.
Quindi, tornando agli interrogativi iniziali, che cos’è “Il nome della rosa”?
Tanto, forse troppo: trattato di filosofia, accenni di semiotica (Eco…docet), accenni di storia europea e papale, trattato sulle eresie, poliziesco induttivo, tutto in uno; con la conseguenza che il narrato, impostato in forma di diario (e, perciò, esposto in prima persona), non può non subire veri e propri “sbalzi” di ritmo narrativo.
Ne discende trattarsi di testo che richiede particolari modalità di approccio, per altro non necessariamente (o, forse, sì) legate al linguaggio utilizzato dall’Autore: dotto, ricercato, desueto; a tacer dei frequenti innesti di locuzioni latine…
Se la trama è, ormai ben nota, qual è il messaggio ultimo, conclusivo, che Eco intende inviarci con la sua Opera?
Parlando al lettore per il tramite del suo alter ego Guglielmo da Baskerville (che, ricordiamolo, si proclama discepolo di Ruggero Bacone e amico di Guglielmo di Occam) l’Autore dimostra come, qualsiasi scritto, anche il più aulico, anche quello di natali più nobili, possa essere capito e interpretato in più modi, a seconda delle finalità che “l’utilizzatore” si propone. Occorre, perciò, sempre e comunque ragionare con la propria testa, senza farsi influenzare da elementi esterni; e interrogarsi su quali siano, fra le tante, le soluzioni più semplici (guarda caso: “Rasoio di Occam”…).
Soprattutto, sottolinea Guglielmo/Umberto, non bisogna cadere nella facile illusione del bigottismo, qualunque sia la sua fonte: Bernardo Gui e Jorge da Burgos sono lì a dimostrarne il perché.
Buona lettura.