Recensione de “Il console onorario”

“IL CONSOLE ONORARIO” di Graham Greene

Recensione a cura di Beniamino Malavasi

“Architettava strutture narrative mai banali, scriveva dialoghi da dio, scolpiva personaggi spesso indimenticabili, distribuiva umorismo e tragedia con la precisione di un farmacista”.

Così Alessandro Baricco nella “fascetta” accompagnatoria il romanzo in oggetto.

Niente da dire: con poche parole, Baricco ha descritto al meglio l’Opera di Greene.

In effetti, che cos’è “Il console onorario”?

Al di là del presupposto beffardo su cui poggia la trama (un gruppo di disperarti agli ordini del fantomatico El Tigre, oppositori di Alfredo Stroessner Matiauda, dittatore del Paraguay, intenzionato a rapire l’ambasciatore statunitense in Argentina per scambiarlo con prigionieri politici paraguayani, sbaglia persona e rapisce l’imbelle console onorario britannico) “Il console onorario” ben può raffigurarsi come un viaggio.

Un viaggio dentro di sé che l’Autore stimola e dirige attraverso i dialoghi (“Scriveva dialoghi da dio”, osserva Baricco) tra i suoi protagonisti.

E, così, mentre il giovane medico Eduardo Plarr (fil rouge della storia) si interroga costantemente sul significato della parola “amore” declinato nei suoi vari aspetti: amore genitori-figli; amore uomo-donna; amore-amicizia; e l’autodefinitosi “criminale” Aquino (vittima di atroci torture nelle carceri paraguayane) scrive poesie sulla morte; l’ex (ex?) prete Leon Rivas, guida morale e spirituale dei rapitori, nonché amico di Plarr, dà voce ai dubbi, alle incertezze che, in fondo, attanagliano ognuno di noi circa la natura e il “ruolo” di Dio nella vita umana. Sono parole dure, shockanti, al limite della blasfemia, quelle pronunciate da Rivas nelle conversazioni con Eduardo Plarr e, soprattutto, con Charley Fortnum (il console onorario inglese).

Paradossalmente è proprio Fortnum, quello che il suo ambasciatore definisce “un pesce disgraziatamente troppo piccolo” per giustificare un intervento “diplomatico” (o altro…) da parte inglese o statunitense (gli U.S.A. erano i “protettori” di Stroessner) per liberarlo dai suoi rapitori, a risultare vincitore morale (e materiale) del duello, non solo con chi, di fatto, lo vuole morto ma, più in generale, con la vita.

È Charley Fortnum, il console onorario, sessantenne ubriacone, che sposa la giovane prostituta Clara, a compiere il percorso di redenzione, di riscatto, che lo porta, oltre a capire e riavvicinarsi a Clara, ad abbandonare la bottiglia e a perdonare l’amico Plarr, reo di avergli messo incinta la moglie… Quasi come se l’Autore volesse dirci che tutti hanno (diritto a) una seconda possibilità.

Ma “Il console onorario” non è solo un viaggio.

È anche un affresco, un quadro o, meglio, più quadri nei quali Graham Greene rappresenta (o condanna?) un certo tipo di società dove il machismo è assunto a modus vivendi; dove è vietato il divorzio; dove la democrazia appare fragile, la dittatura è il modello imperante e si muore per le proprie idee.

Greene è bravo ad “architettare (una) struttura narrativa mai banale” (cit.) perfettamente incastonata in quell’ambito storico-geografico che era (è) l’America Meridionale; è bravo a costruire una trama credibile e a “scolpire personaggi… indimenticabili” (cit.).

Anche il ritmo, inizialmente blando, pagina dopo pagina diventa “quello giusto” per fissare nella mente del lettore le varie situazioni che si snodano nel corso della narrazione.

“Il console onorario”: un romanzo di pregio che induce il lettore a riflettere su ciò che l’Autore comunica tramite i suoi personaggi; che induce a riflettere e, conseguentemente, a creare un contraddittorio (necessariamente a distanza…) con i Plarr, i Rivas e i… consoli onorari del caso.

E questo deve essere il fine della lettura: confrontarsi con idee non necessariamente coincidenti con le proprie.