Eshkol Nevo – Anteprima Festa del Racconto – Carpi – 16 settembre 2024


Lo scorso 16 settembre 2024, presso l’Auditorium “San Rocco” in Carpi, nell’ambito della Festa del Racconto 2024 – Anteprima, dialogando con Caterina Soffici [a dx nelle foto], lo scrittore israeliano Eshkol Nevo [al centro nelle foto] ha parlato di sé e del suo [ultimo] libro Legami. La traduzione dell’intervista è stata a cura di Giulio Iovine [a sx nelle foto].

Di seguito si riporta testo dell’intervista tradotta. Quanto alle domande si è privilegiato la domanda diretta, tralasciando il cappello introduttivo. Ci scusiamo fin d’ora se qualche parola non è stata riportata precisamente .

D: primo racconto Hungry Hearts (canzone Bruce Springsteen) com’è questa storia dei cuori? Com’è questa storia dei cuori affamati? Come mai ci sono tutti questi cuori in questo libro?

R: prima di tutto è meraviglioso essere qui in Italia che per me, adesso, è una seconda casa considerato che la prima mia casa Israele sta vivendo un periodo particolarmente turbolento. È molto bello per me respirare l’aria italiana dove non ci sono né guerra né violenza e riguadagnare in qualche modo la mia forza e la mia speranza; per questo sono estremamente felice di essere in Italia e per la prima volta a Carpi.

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Ha scherzato col traduttore dicendo che è la prima volta che ha traduttore uomo e che ha una voce baritonale

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Ma per tornare alla tua domanda sui cuori in effetti io credo che uno dei fil rouge che connette questi racconti sia proprio il corpo. Nell’edizione israeliana di questo libro sulla copertina c’era un cuore, nell’edizione italiana c’è un corpo esposto, molto esposto e se riguardo questo libro in nuova prospettiva, perché sono anni che è stato pubblicato in Israele, mi rendo conto che nelle storie accadono delle cose ai corpi. A esempio, nel primo racconto il protagonista vuole andare al concerto di Bruce Spingsteen mentre suo padre sta morendo, il suo corpo si sta spegnendo; nella seconda storia una madre vuole andare a trovare suo figlio che non vede da tanto tempo e si rompe una gamba; nella terza storia, quella sul tennis, la sposa entra in un campo da tennis. Il tennis è uno sport fisico. Insomma il corpo è un personaggio di questo romanzo, di questi racconti.

D: tu hai messo 13 anni a fare questo libro, è una grossa parte di te… tu potresti riscrivere questo libro adesso o come sarà possibile raccontare Israele dopo il 7 ottobre, visto che stiamo arrivando a una scadenza, un anno dall’inizio della guerra?

R: innanzitutto è affascinante notare come la le gente legga il cambiamento nel mio libro prima e dopo il 7 ottobre. Questo libro è uscito in Israele nell’agosto del 2023 e prima del 7 ottobre se ne parlava in un certo modo, si descriveva l’esperienza di leggerlo come esperienza dolorosa, come un pugno nello stomaco, un pugnale nel cuore; dopo il 7 ottobre questa esperienza è stata riscritta in modalità del tutto diversa, un libro che dava conforto, un libro pieno di misericordia. Un lettore mi ha scritto che gli sembrava che il libro fosse un grande abbraccio, di essere stato abbracciato da me. E questo è bello perché mi rendo conto che alla fine i lettori trovano nel libro esattamente quello che stanno cercando in quel momento. Un libro, il significato di un libro può cambiare senza limiti di tempo. Io stesso, quando vado a guardare cose che ho scritto anni fa, mi rendo conto che per me hanno cambiato completamente di senso, e posso usarle per stabilire un dialogo con il pubblico di adesso.

Faccio un esempio. Nel libro c’è un racconto intitolato Escape-Room. Escape Room è un racconto che ho scritto a partire da una situazione della mia vita che è molto divertente. Io ho tre figlie e queste tre figlie insistevano per andare tutte insieme con me in questa escape-room. Ognuno, chiunque se ha tre figlie sa benissimo che se uniscono le loro forze non c’è verso di rifiutare loro alcunché. Sono andato, già ero spaventato all’inizio, poi è stata un’esperienza umiliante, io non ho contribuito per niente alla risoluzione degli enigmi dell’escape room, completamente inutile, e alla fine non siamo nemmeno riusciti a uscire: abbiamo dovuto chiamare il soccorso perché ci tirassero fuori perché, confesso, sono anche un tantino claustrofobico. Comunque, dopo che siamo stati salvati, ho pensato: voglio scrivere qualcosa su questa situazione ma, anziché parlare di me, che sono solo un pochino claustrofobico, mettiamoci qualcuno che è stato veramente in galera, in uno spazio chiuso, un ex soldato, un veterano che è stato in una prigione egiziana.

Ora io ho condiviso con voi come è nata questa storia. Nella mia mente avevo questa quarta [?] idea e improvvisamente mi è tornato in mente quando ero piccolo le storie della buona notte. Mio padre mi leggeva Lo Hobbit. voi conoscerete il Signore degli Anelli e sapete che è cominciato con Lo Hobbit, e notte dopo notte lui mi leggeva. Quando finì di leggere Lo Hobbit mi rivelò che la traduzione in ebraico de Lo Hobbit fu fatta da prigionieri israeliani che passarono quattro anni, dal 1970 al 1974, nelle prigioni egiziane. Passarono il loro tempo a produrre la prima traduzione ebraica de Lo Hobbit. Io trovo che questo sia straordinario di come passarono il loro tempo e questa memoria di me e mio padre è tornata, così ho creato la scena di come è stato pubblicato il libro nell’agosto del 2023; poi c’è stato il 7 ottobre e sono venuti da me numerosi gruppi di persone di varia estrazione, soldati, feriti, persone con stress post traumatico, mi chiedevano di leggere loro delle storie. Guardavo i legami e mi chiedevo cosa può andare bene per queste persone post traumatiche. Di fatto l’intera mia nazione è in preda a stress post traumatico in questo momento e ho pensato di leggere loro “L’ultima intervista” [?] ho scritto nel 2017-2018 e la cosa che può fare al caso loro, può dare loro speranza, può aiutare loro a fare i conti con la loro situazione, può aiutare loro a immaginare un futuro in cui la creatività, la creazione,  può venire da un momento di prigione, di sofferenza e in parte possono scoprire un nuovo significato, una nuova essenza del mondo.

È affascinante perché mi rendo conto come ogni lettore crea il libro per se stesso. L’altra sera ero sul Lago di Como a un evento simile a questo e come in questo evento alla fine c’è stato il momento del firmacopie. È venuta da me una ragazza e mi ha detto che voleva condividere con me la sua riga preferita di Legami, ed era una riga che veniva da Escape Room. Ho pensato: mi vorrà parlare di un passaggio dove si parla di stress post traumatico, di galera. No: in realtà Escape Room è anche una storia d’amore e infatti lei è stata impressionata dalla frase freedom is not the opposite of love – la libertà non è il contrario dell’amore. Per lei questa era la frase più importante del libro. Per altri era importante altro, come uscire dall’escape room… I lettori creano ogni volta di nuovo, di nuovo il libro. Alla fine l’autore è semplicemente un accessorio che sta in un angolo, il libro è vostro, lettori!

Ha chiesto traduzione in italiano di Freedom is not the opposit of love. La libertà non è il contrario dell’amore. Bello!

D:  … se provi a cancellare il passato alla fine ti esplode in faccia [da “Ogni cosa è fragile”] Perché hai costruito questa frase… che è così importante sia per ogni persona, per il Paese in particolare?

R: la storia in realtà è nata da un fatto vero. Io ho un amico che, effettivamente, per molti anni, è scomparso. Nella nostra epoca è difficile scomparire. Noi abbiamo Google Earth, Google maps, noi abbiamo i social media, lui è riuscito veramente a scomparire e in un modo, all’epoca, se ci pensavo, io dubitavo fosse ancora vivo. Abbiamo provato a ritrovarlo, fatto leva sulla famiglia, sugli amici e nessuno aveva ide di dove fosse. Per 10 anni io sono andato a eventi come questo, in Israele, in Italia, ovunque nel mondo. La prima cosa che facevo ogni volta che entravo in sala era guardare in mezzo al pubblico perché pensavo: forse oggi è qui; l’ho fatto per10 anni. A un certo punto mi ero arreso, non ci credevo più, poi sono andato a New York dopo che era stato pubblicato appena Tre Piani. Io ero stato invitato al Festival, ero nel mio hotel ad annoiarmi, ho aperto la mail inviata a tutti i partecipanti del festival, leggo la lista degli indirizzi e… tac! Il suo nome! Copio-incollo l’indirizzo, gli scrivo: sei Tu? Lui risponde: sì. Gli chiedo se è a New York: lui risponde sì. Gli chiedo se domani gli va di prendere un caffè e lui acconsente. E sono andato a incontrarlo. Io stavo tra la Prima Avenue e la 156° Strada; il caffè dove dovevo incontrarlo era sulla Quinta Strada e mi sono messo a camminare. E a un certo punto, cammina, cammina, mi sono reso conto che era una via dolorosa, erano passati 10 anni, io di quest’uomo non so più niente, non so se è sposato, non so se è divorziato, non so se ha dei figli, non so se non ne ha, ho delle ferite riguardo al passato a causa sua: forse c’è una ragione per cui lui è scomparso e abbiamo smesso di essere amici? Forse ci siamo offesi a vicenda? Ma siamo in grado dopo 10 anni di buco nero di essere ancora amici? Ed è così che nella mia mente è cominciata la storia. Una persona cammina per New York lungo la via dolorosa e cambia conversazione con un amico. Come vedete vi ho messo anche una storia d’amore; dei personaggi si muove la sorella di un amico e così do il senso largo del tempo: il passato, l’amicizia dei due, e il futuro, la storia d’amore, inserito, vivificato dalle fragili personalità di questi personaggi che abbiamo nella storia. Adesso torno alla tua domanda, lo giuro!

Ora io ho sempre amato mischiare il livello psicologico personale con quello razionale, questa osmosi per cui la vita pubblica interferisce con la vita privata e la vita privata è metafora della vita pubblica. L’ho sempre fatto fin dal mio primo romanzo e in questa storia da una parte si parla del passato, dei legami tra due amici molto stretti ma c’è un altro problema: è possibile vivere adesso in Israele ignorando il suo passato, ignorando la guerra del 1948 o del 1967 o ignorando la storia degli ebrei d’Europa? Possiamo sopravvivere al passato, vivere in armonia con la sua narrativa? Ovviamente questa è una domanda letteraria, retorica e non c’è una vera risposta anche se è importante comunque porsi la domanda.

D: c’è una storia talmente strana che deve essere vera, quella del tennis. C’è campo sportivo con campi da tennis, c’è società che fa degli eventi – matrimoni e bar mitzvah. E qui nasce una storia che parte dalla sposa: mentre sta andando al suo matrimonio si toglie i tacchi e va a giocare. Come nasce la cosa?

R: Ma, guardi, a proposito della relazione tra autobiografia e fiction, una volta tenevo lezione a Tel Aviv in una compagnia [società] di alta tecnologia. Durante il mio monologo alza la manina il chief executive officer del settore finanziario, una donna dall’aspetto molto aspro, anche dalla voce molto aspra, e dice: sig. Nevo mi dia un numero, non mi racconti storie: quanto c’è di autobiografico in questo libro? Una signora alla quale avrei avuto paura a dire di no e le ho detto 66,6%; e lei è stata molto felice.

Ma, per tornare al tennis… in effetti gioco a tennis e nel campo dove giocavo due anni fa effettivamente hanno aperto un centro per matrimoni e bar mitzvah all’interno di un campo sportivo   Ma chi vorrebbe mai sposarsi o fare un bar mitzvah nel bel mezzo di un campo da tennis? Questa cosa fallirà… invece ha funzionato benissimo! Sono state centinaia le persone che sono venute a sposarsi o fare bar mitzvah. Allora noi finita la partita di tennis, sudati, lerci, dovevamo attraversare la folla di invitati al matrimonio, in cappelli a cilindro e smoking, sentivamo l’odore del cibo con una fame tremenda e qui ho visto una contraddizione che ho trovato molto interessante, ma arriviamo al momento cruciale di dove la storia ha avuto inizio.

Anzitutto è molto strano per me parlare di tennis qui seduto, quindi adesso mi alzo e ve la spiego [si alza in piedi] Ora immaginatevi: qui c’è il campo da tennis e qui c’è dove viene celebrato il matrimonio con lo chuppah, con il rabbino, la sposa e lo sposo e noi giochiamo a tennis dall’altro lato. Nessuno di noi due è Jannik Sinner, non solo, ma stiamo anche rapidamente deteriorando.  Allora il mio amico lancia la palla, io la ribatto, troppo forte, la palla va, lo supera, supera la siepe, e io sono già lì che vedo la catastrofe che arriva: la palla che arriva in faccia al rabbino, alla sposa e le scuse che mi toccherà inventare per questa cosa e questo è il 66,6% (il dettaglio di cui parlavo prima). Quello che è successo veramente è che la palla è cascata sul piede di uno di quelli che portavano lo chuppah: lui l’ha guardata, mi ha guardato, mi ha sorriso e il matrimonio è andato avanti senza colpo ferire. Ma nella storia… lì mi è venuta in mente la storia: io ho pensato: facciamo che il matrimonio ha luogo all’interno del campo, facciamo che cosa succede se la sposa entra all’interno del gioco. Ed è lì che è nata la storia.

Ecco ora la cosa buffa è questa. Ovviamente è una fiction. Quando ho dato il manoscritto dell’intero romanzo al mio compagno di tennis se lo è letto ed è venuto a dirmi: guarda il libro è molto buono ma c’è una storia, secondo me sei andato completamente fuori fuoco, hai esagerato: quella sul tennis, non ci crederò mai che una posa entrerebbe in un campo da tennis. Io Ho accettato il suo giudizio ma l’ho pubblicata lo stesso. Era agosto 2023.   Nel settembre del 2023 mi arriva un messaggio di testo da una amica di un amico di un amico, non un’amica stretta, o una che conoscevo, non conoscevo nemmeno il numero di telefono. Mi manda questo testo. Nel testo c’è una immagine. L’immagine di una sposa con la racchetta da tennis e tre parole: How did you know? – Come facevi a saperlo? Certe volte l’immaginazione vale 100% quanto la realtà.

D: Il racconto che chiude il libro è ambientato in un appartamento a Torino…. C’entrano le campane: racconta cosa è successo. Davvero sei andato dal prete?

R: allora, quando sono stato invitato a Torino a insegnare alla Scuola Holden mi hanno dato un appartamento in Piazza Emanuele Filiberto. Quando ci sono entrato ho pensato: che fosse il posto perfetto per me! Si vedevano le montagne, c’era la piazza, c’era una stanza dove potevo scrivere. Durante il giorno ho pensato che era l’appartamento più bello che avessi mai visto, poi è arrivata la notte… È saltato fuori che a 50 metri da lì c’erano le campane di una chiesa, 50 metri dal mio letto, e che durante la notte suonavano ogni mezz’ora: 01:00-01:30-02:00-2:30-03:00-03:30 a un certo punto, a causa di queste campane, ho temuto di non riuscire a lavorare perché ero stanchissimo, non dormivo. Il giorno dopo ho infilato un caffè lungo, dopo un caffè lungo, dopo un caffè lungo; la seconda notte ho sperato magari questa volta si dorme e non ci sono riuscito perché le campane hanno suonato tutta notte. Dopo tre notti così, ho fatto quello che mia madre in questi casi mi avrebbe suggerito di fare: di affrontare di petto la situazione. Sono andato dal prete e gli ho chiesto di abbassare il volume.

Sono andato alla chiesa. Ora, io sono ebreo, non vado mai in una chiesa cristiana. Ho partecipato alla preghiera “Dio Santo”, “Dio Santo”, Dio Santo”, e il servizio non finiva mai. Finalmente, quando è finito, il prete è improvvisamente scomparso. Sono entrato in chiesa a cercarlo e vedo il confessionale. Non sono mai stato in un confessionale in vita mia; non ne ho mi visto uno. Lo raggiungo, vedo che c’è una luce fuori: sembra un taxi! Cioè, quando la luce è accesa la confessione è in corso e quindi il prete è dentro che sta confessando; e penso: ok! Allora mi confesso anch’io. Confesso che ho un problema con le campane. Alla peggio confesso i miei peccati.

Solo che c’era un problema: si stava confessando una signora, una peccatrice di età avanzata e aveva molto da condividere, ma molto, moltissimo, andava avanti, avanti, avanti; quel giorno, evidentemente, a Torino c’erano molti peccatori che aspettavano di confessarsi perché sulle panche c’era una fila di 4-5 persone. Ho calcolato il tempo: se sono tutti come questa signora faccio tardi alla lezione alla Scuola Holden. Lì sono tornato all’appartamento e ho scritto il racconto.

D: si sono moltiplicati questi corsi di scrittura? Gente ha bisogno di raccontare? 100% di realtà è troppo forte?

R: anzitutto vorrei condividere un aneddoto, aspettavo il momento giusto per condividerlo: la differenza tra i miei studenti israeliani e i miei studenti italiani. Io ho insegnato 25 anni in Israele e vengo adesso dalla Scuola Holden dove ho appena finito di insegnare ai miei studenti italiani. E c’è una metafora; a livello metaforico questo è molto interessante. La sfida più grande che ho incontrato in 4 semestri, 2 anni di insegnamento alla Scuola Holden è convincere i miei allievi italiani a mettere i loro personaggi uno contro l’altro, in conflitto. Le loro storie spesso non sono abbastanza conflittuali. E io glielo dico: sii più intenso, sviluppa di più il conflitto tra i personaggi. Con i miei allievi israeliani è il contrario: sono troppo conflittuali. Gli devo dire di rilassarsi un attimo, di sviluppare la scena, di trovare un momento di grazia, di misericordia. E questo è molto interessante perché pare che delimiti la differenza tra queste due società: noi amatissimi compaesani israeliani siamo così abituati al conflitto che poi emerge quello che scriviamo.

Dunque, per tornare alla tua domanda, io credo che l’ultimo anno sia stato per me fondamentalmente un anno di lavoro terapeutico, sono diventato una specie di terapista. Ho un workshop in Israele, la chiamiamo la right safe zone – la zona sicura per la scrittura, una zona sicura diciamo per esprimere i propri sentimenti e la gente cui insegno, la gente che metto in grado di scrivere sono persone ferite, sono persone che hanno patito molto dolore. E tu devi essere molto delicato con queste persone: non devi scatenare la loro sofferenza, devi, semmai, passarci attraverso, lasciare, se possibile, anche un po’ di speranza. Negli ultimi 11 mesi io ho detto sì a tutto quello che mi hanno chiesto in termini di lavoro. Una delle ultime esperienze che ho avuto è stata rilevante. Ho incontrato dieci donne evacuate da Kilosa [?], un kibbutz nelle vicinanze di Gaza. Tutte queste 10 donne hanno perso qualcuno il 7 ottobre [2023]: chi un figlio, chi un nipote, un marito, un fratello e volevano scrivere. Ci siamo trovati lì in albergo e mi sono chiesto: qual è l’approccio giusto per cominciare a parlare con queste persone? Vado a toccare subito il loro trauma, la loro ferita? No, è troppo, troppo per loro. Ho detto loro di scrivere ma non dei fatti del 7 ottobre ma sulla loro infanzia, sulle loro vacanze in Italia, sulle persone che amavano, su piccoli aneddoti, sui loro momenti di grazia, di tenerezza. Nella prima e nella seconda sessione abbiamo fatto così. Finché nella terza sessione ci siamo visti tre volte e allora ho detto va bene: ci conosciamo, siamo in una zona sicura: andiamo alle ferite, ma non parlare del grande dramma del Paese, ma parlare del loro piccolo dramma privato vicino al grande dramma, qualcosa che è successo loro il 7 ottobre ma che non è particolarmente importante: una ha scritto, per esempio, dell’insalata che stava cuocendo, perché avevano fame nel momento in cui i terroristi hanno attaccato, hanno sganciato le bombe. E alla fine si sono trovate tutte in lacrime, hanno tutte pianto. Avevano una fortissima necessità di scrivere, sì, però avevano anche bisogno di gentilezza. E questa è stata la più grande sfida per me in questo ultimo anno: come consolare le persone senza che l’esperienza sia troppo dolorosa per loro. Deve essere dolorosa, ma non troppo dolorosa. Io spero che abbia funzionato. È stata sicuramente anche per me un’esperienza molto forte.

D: [Israele è tante cose, non solo quello che vediamo in Tv o sui giornali] qual è il ruolo degli intellettuali, cosa fanno gli intellettuali in Israele?

R: in questo caso vorrei usare le parole di Lea Goldberg, una ebrea nata in Lituania, alla quale fu chiesto qual era il ruolo dello scrittore e la sua risposta è diventata il mio motto: uno scrittore è un uomo di parole e in guerra deve ricordare alla gente che non è mai troppo tardi per essere di nuovo umani. Io non posso modificare le decisioni del mio governo ma posso ricordare alla gente con le mie storie, i dialoghi, le letture che sono esseri umani, che sono esseri capaci di speranza, di amore, di empatia. Lo vedo con i miei amici, lo vedo con le mie figlie, e in tempi come questi si perde empatia con l’altro lato, il nemico diventa inumano. Non è vero: il nemico è umano: c’è gente che soffre a Gaza e altrove e se c’è un ruolo che ha un uomo di parola è che deve ricordare il ruolo che gioca l’empatia, senza empatia non c’è soluzione. L’empatia ti consente di averti privativa [?] la sofferenza dell’altro lato. È quello che sto cercando di fare io, nei miei libri, nelle mie interviste, nei miei reading. Io spero la prossima volta che ci incontreremo qui in Italia avremo avuto un cessate il fuoco. Ne abbiamo disperatamente bisogno. Credo ci sia un trattato americano sul tavolo, se ne sta discutendo, un trattato che non è perfetto né per gli israeliani né per i palestinesi ma chi se importa: deve finire questa guerra. Noi dobbiamo essere in grado di camminare verso il futuro e di credere che questo circolo di sangue verrà spezzato. Io tengo alta la fiaccola della speranza, c’è speranza di pace nella mia Terra. Credo a questa speranza e tengo alta questa fiaccola anche per gli altri.

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