Recensione di “Volevo tacere”

“VOLEVO TACERE” di Sándor Márai

Recensione a cura di Serena Donvito

“Volevo tacere. Ma il tempo mi ha chiamato e ho capito che non si poteva tacere. In seguito ho anche capito che il silenzio è una risposta, tanto quanto la parola e la scrittura. A volte non è neppure la meno rischiosa. Niente istiga alla violenza quanto un tacito dissenso.”

È con queste parole che inizia il libro. Un libro diverso rispetto a quelli cui ci ha abituati Márai, così come molto diversa è la sua penna. Qui troviamo il Márai giornalista che, grazie alla versatilità del suo stile, riesce a riportarci ciò che ha vissuto in prima persona senza mai perdere in lucidità e razionale analisi.

In questo libro ci parla degli anni dell‘Anschluss (l’annessione dell’Austria alla Germania nazista); del 19 del marzo 1944 quando i carrarmati tedeschi varcarono i confini ungheresi; dell’arrivo dei Sovietici nel 1945; fino alla scelta dell’esilio nel 1948.

“Quella notte accaddero molte cose. Dormii un sonno profondo, ma è probabile i miei sogni fossero pieni d’angoscia. In quell’istante si stava avvicinando alla mia vita qualcosa che esisteva già, di cui avevo paura – ma si sa com’è la natura umana: finché ci sono ottocento chilometri a separarci da una realtà, siamo portati a vedere le cose, anche se si tratta di cose reali, come fuochi fatui nella nebbia. A quell’epoca Hitler era una realtà già da molti anni – quel nome e tutto ciò che significava aleggiava nell’atmosfera avvolto da sinistri vapori. Ma aleggiava da qualche parte in Germania, dunque non era veramente reale.”

Márai ci racconta di come si sentiva lontano da tutto ciò che stava accadendo. Era uno scrittore conosciuto, un giornalista affermato, conduceva una vita agiata, aveva una ferrea routine: cosa poteva capitargli?

Come dicevo, questo libro è molto diverso dagli altri. C’è storia, politica, e c’è un uomo che affronta quegli anni continuando a domandarsi cos’avrebbe potuto fare di diverso. È tormentato nell’assistere alla fine di tutto ciò in cui aveva creduto e su cui aveva basato la propria vita. Uno sguardo doloroso, ma anche lucido e razionale su quegli anni che lo hanno segnato per sempre.

“Non si crede davvero neppure nella morte – se ne ha paura, l’esperienza ci dimostra che è inevitabile, ma in fondo al nostro cuore e alla nostra coscienza speriamo fino all’ultimo che per noi farà eccezione, che inventeranno un rimedio miracoloso capace di allungare in eterno la vita umana e, noi personalmente, non moriremo. Naturalmente sappiamo che tale desiderio è ridicolo. Eppure non si crede alla propria morte, poiché altrimenti l’anima sarebbe costantemente in preda al panico.”