Recensione di “Il Demone a Beslan”

“IL DEMONE A BESLAN” di Andrea Tarabbia

Recensione a cura di Serena Donvito.

“Gli adulti tentavano di proteggere i bambini, alcune maestre hanno ordinato agli alunni di voltare il capo per rispetto ai morti e perché gli occhi dei bambini non vedessero anche questo. Così, mentre noi uccidevamo, centinaia di teste offrivano la nuca alle vittime: centinaia di teste girate e con gli occhi strizzati, per non vedere e come per non sentire.”

Vi ricordate quel primo settembre del 2004?

Io sì. Avevo 26 anni e mio figlio 6. Ricordo le immagini dei telegiornali, l’angoscia per quei bambini, molti dei quali avevano l’età di mio figlio. Ricordo che cercai di immaginare l’impotenza che può provare in quei momenti un genitore. La consapevolezza che anche se quelle madri erano lì con i propri bambini, poco potevano fare per proteggerli da quell’orrore che li stava pian piano uccidendo, e che avrebbe continuato a farlo anche se ne fossero usciti vivi. Ho riprovato le stesse sensazioni leggendo “Il demone a Beslan.”

Quando mi approccio a un libro che so essere tratto da una storia vera, lo faccio sempre con un misto di curiosità e ansia. Curiosità, perché spesso nei libri troviamo particolari a cui le cronache hanno dato poco risalto. Ansia, perché già so che per quanto ci siano bravissimi scrittori di thriller e horror, neanche la mente più geniale riesce a ideare una trama anche solo simile alle mostruosità che l’uomo riesce a compiere davvero.

Questo libro tocca ogni corda dell’anima. Empatia, rabbia, cordoglio, disgusto, incredulità e dubbi, accompagneranno tutta la lettura.

La scrittura è superba, l’Autore è riuscito a creare e a dar voce a personaggi totalmente diversi tra loro con una maestria impressionante. Abbiamo l’innocenza di una piccola vittima:

“Tu mi hai fatto paura e mi hai fatto fare la pipì addosso e poi mi hai ucciso – anche se non sei stato tu mi hai ucciso tu, è lo stesso. Quello che avete fatto a me e a tutti gli altri è più grande di quello che avete passato voi, è più grande di tutte le storie del tuo villaggio e delle tue vedove. È più grande perché noi non eravamo niente e non c’entravamo. Io avevo otto anni e c’ero davvero, era il primo giorno di scuola ed ero felice. Poi siete arrivati voi, e io non sono stato più.”

…così come l’odio degli attentatori che si giustificano:

“Ora sto difendendo la mia terra, mi dico, e non mi importa del prezzo che queste persone stanno pagando. Io sono un ceceno, e so che morirò: se non sarà oggi sarà domani o fra tre giorni, non importa. Ma morirò per rispondere alla violenza che ho subito, in nome della mia famiglia e della mia terra.”

È come un gioco di specchi, non sappiamo dove guardare, ognuno di loro ha da dirci e spiegarci qualcosa. Nulla può giustificare un tale atto di disumanità, però penso che leggere e comprendere possa aiutare ad avvertire il pericolo quando si avvicina, a capire che non è così tortuoso il percorso che conduce alle tragedie, che la verità non sta da una parte sola, che dobbiamo imparare ad andare oltre ciò che ci viene mostrato, che l’indifferenza, il far finta di non vedere, non porta nulla di buono.

“La mancanza d’odio in chi uccide è la cosa che da sempre mi spaventa di più. Chi odia può essere guarito, ma per chi non odia non c’è scampo: egli può uccidere o non uccidere: gli è completamente indifferente. Questo, Marat, è più mostruoso della cattiveria più feroce.”