“Il re di Varsavia” di Szczepan Twardoch
Recensione a cura di Beniamino Malavasi
Ho terminato la lettura di questo libro da alcuni giorni ma, ancora oggi, mi interrogo sul se e sul cosa mi abbia lasciato.
Il romanzo non è breve [siamo sulle 490 pagine circa, comprensive di un utile “Glossario”] ed è suddiviso in sette capitoli i cui titoli sono ordinati secondo le lettere dell’alfabeto ebraico [Alef; Bet; Gimel; ecc.]. Anche i capitoli non sono brevi, anzi.
Sorprende la scelta dell’Editore di far seguire al romanzo un, questo sì, breve saggio [“La normalità del male”, il titolo] curato da Francesco M. Cataluccio. Scelta sorprendente ma che torna utile come tentativo di dare una spiegazione, specie con riguardo al ricorrente richiamo, operato da Twardoch nella sua opera, al Capodoglio Litani.
Torniamo a Il re di Varsavia.
Superati con difficoltà Alef e Bet [ovvero i primi due capitoli] ho avuto l’impressione che le pagine successive non fossero nate dallo stesso autore delle precedenti: tanto arzigogolate, sullo stile del James Ellroy della Trilogia americana, le prime centoquaranta pagine, maggiormente lineari quelle seguenti. Tuttavia, ciò che risulta assente in entrambe le parti è il “ritmo serrato” di cui parla la fascetta accompagnatoria al libro. Per la verità è proprio il concetto di ritmo a essere latente in tutto il libro.
E, chissà, forse perché accortosi di tale carenza Twardoch costruisce un colpo di scena sull’identità del narratore, cogliendo, questo sì, di sorpresa il lettore. Un po’ poco per un romanzo che vuole, vorrebbe, offrire un quadro, con relativo spunto di riflessione sulla Varsavia del 1937, la più ebraica delle città europee, da un lato attraversata dalle correnti nazionalsocialiste di marca hitleriana e, dall’altro lato, ancora impregnata degli esiti della guerra combattuta [e vinta] negli anni ’20 del secolo scorso contro l’allora neo-costituita Unione Sovietica.
Essere ebreo, dunque, con le sue sfaccettature e le sue contraddizioni: Dio non esiste ma l’azione dei personaggi è sorvegliata da Litani, mitologico capodoglio, che sembra rifarsi a quello che inghiottì il Giona biblico.
Essere ebreo che richiede lo schierarsi politicamente, con tutte le conseguenze, dolorose, del caso.
Essere ebreo che vagheggia, no, che aspira al tornare in Palestina [contrapponendosi all’idea, piuttosto diffusa all’epoca, di trasferire gli ebrei europei in Madagascar].
Chi è, dunque, il re di Varsavia?
Lo si scopre, come è giusto che sia, nel finale del romanzo.
Finale che, incastonato in una sorta di romanticismo violento che segna la trama, dove il lettore si trova, suo malgrado, a tifare per i cattivi [ma chi sono i buoni?], immalinconisce.