Recensione a “Harvard, Facoltà di Legge”

“HARVARD, FACOLTÀ DI LEGGE” di Scott Turow

Recensione a cura di Beniamino Malavasi

Chi di noi non ha mai avuto un professore come Rudolph Perini di Contratti?

Chi di noi non è mai stato colto impreparato dall’insegnante?

“Senza dubbio, tra dieci anni scriverei un libro diverso, metterei in risalto avvenimenti diversi, esprimerei un interesse minore o maggiore per certi elementi della mia istruzione.”

Così scrive Scott Turow nella Prefazione al suo “One L” (titolo originale dell’Opera).

A ben guardare, concetto equivalente può esprimersi a proposito della ri-lettura del Testo che avvenga a distanza di anni dalla prima volta.

Invero, se durante il primo approccio è naturale che l’attenzione si sia focalizzata solo su alcuni elementi del narrato, affrontare nuovamente le stesse pagine, trascorso un certo lasso di tempo, produce il sottolineare aspetti e/o riflessioni esposti dall’Autore in precedenza non colti appieno.

E così, oggi, “Harvard, Facoltà di Legge” si presenta diverso dal passato.

Diverso nell’apparire e nel relativo messaggio.

Un po’ autobiografia, un po’ saggio, un po’ fiction, “Harvard, Facoltà di Legge” porta il lettore a compiere quel percorso tale per cui:

Se mi iscrivessi a legge lo farei per incontrare il mio nemico. Credo che sia un bene. E se volessi incontrare il mio nemico andrei ad Harvard, perché lì sarei più sicuro di incontrarlo.”

Con il suo libro Turow squarcia il velo di uno dei Templi sacri dell’eccellenza scolastica statunitense e si interroga su cosa sia (o fosse: “One L” è del 1977) Harvard:

il rapporto studenti professori – questi ultimi visti come creature mitologiche, inarrivabili; il “metodo socratico”; l’integrazione razziale e femminile – siamo pur sempre a metà Anni ’70 del secolo scorso; il ruolo che assumeranno gli studenti, una volta laureati, nel mondo reale.

Turow si mostra piuttosto critico nei confronti di quella Struttura che pare essere immutata (e immutabile) fin dal XVII secolo, quando fu fondata:

Questa dicotomia tra il fare il bene e cavarsela bene, che turba così profondamente la professione forense, dovrebbe essere familiare a chi ha letto “Harvard, Facoltà di Legge”, perché ha le radici nell’insegnamento del diritto. Come ho notato, uno degli aspetti più dolorosi della facoltà di legge è ciò che spesso gli studenti vivono come la sensazione di venire sottratti a se stessi. Valori e convinzioni vengono contestati, in genere buttati allo scoperto. Gli studenti imparano che per ogni argomento c’è un controargomento. S’insegna la plasticità della legge… Ma gli avvocati usciti dalla facoltà di legge di solito hanno la sensazione che venga scoraggiata l’adesione a un mondo di valori più ampi. All’idealista si sostituisce il tecnocrate. Chi era votato al bene adesso è qualcuno che aspira semplicemente a far bella figura.”

Scrive l’Autore nella Postfazione datata 1988, quasi che lui stesso abbia avuto bisogno di lasciar decantare idee e pensieri per poterli esprimere al meglio:

Certo, sotto certi aspetti, le mie idee sull’insegnamento del diritto sono un po’ diverse da quelle che erano quando lasciai Harvard nel 1978. Sebbene violi probabilmente qualche regola delle proporzioni lamentarsi di qualche cosa dopo più di un decennio, gli anni trascorsi da allora hanno accentuato il mio disappunto per il fatto che la facoltà di legge non è di grande aiuto nella professione legale, in certe cose.”

Harvard, Facoltà di Legge” è una lettura consigliata.

È un viaggio per capire quanto possa valere una persona, per capire quanto, sotto certi aspetti, sia manipolabile; per capire chi sia il nemico e come fare a batterlo.

Quando gli chiesi se il denaro che avrebbe guadagnato lo faceva sentire a disagio, mi rispose di no… Lo valgo – disse – Ho studiato per molto tempo, ho acquisito una data capacità, e la gente è disposta a pagarmi per questo. Non rubo niente a nessuno. Lavoro come uno schiavo per quello che guadagnerò.”