Intervista a Nathan Marchetti

Il Circolo Fozio è lieto di ospitare Nathan Marchetti: scrittore, musicista, artista. Insomma: uomo di cultura a tutto tondo, come piace a noi!

Grazie Nathan per essere qui con noi e… pronto a dire la verità, tutta la verità, niente altro che la verità?

Grazie per l’invito! Certamente, eccomi a completa disposizione.

Ora, visto che la Rete è piuttosto avara di informazioni su di te, dobbiamo rimediare; e subito.

Giusto per iniziare dall’inizio (!) e altrettanto giustamente per essere indiscreti: “Nathan” è un nome insolito. Ce ne vuoi parlare?

Nathan è il mio nome ebraico. Viene dalla Bibbia, significa “Donato”. Il punto è: donato a chi? Parlando di emozioni, donato a Fratelli Frilli Editori e al nostro meraviglioso pubblico.

Con Frilli si è creata perfetta sintonia fin dal primo momento. È una gioia continua.

I nostri lettori sono accaniti, forti, affezionatissimi. Aumentano di continuo: Fratelli Frilli Editori mette al centro la qualità. La suspense del genere giallo-noir; la bellezza delle città italiane. Venezia, nel mio caso.

Segui il calcio? Se sì: per quale squadra tifi (attento come rispondi!)? Più in generale, segui lo sport?

Vivo attualmente a Ferrara, pertanto sono affezionato alla mitica SPAL. Lo stadio “Paolo Mazza”, tenacemente in centro, è il segno più evidente dell’affetto riservato dai Ferraresi a questa storica squadra. La sento anche mia.

Se seguo lo sport? Eccome! Ogni partita è una lezione. Una storia. In fondo in fondo non c’è differenza fra la trama di un buon libro e l’evolversi di un match. Almeno, a me sembra sia così. 

Da quanto sappiamo, hai esposto tue opere allo Swiss Art Space di Losanna. Che tipo di opere? Come mai in Svizzera? Vuoi parlarcene?

È accaduto qualche anno fa. La Svizzera rappresenta una tappa significativa nel mio percorso artistico, poi tornato a basarsi in Italia.

La galleria con cui collaboro stabilmente è “Independent Artists”; ha sede a Busto Garolfo, in provincia di Milano. Non lontano dalla Svizzera, tra l’altro.

Nelle mie opere stendo la materia (tempera, acrilico, colla vinilica, perfino del vino) su tavole di legno. Mi piace “giocare” con un numero limitato di elementi: riduco i colori a uno, due al massimo. L’intento è creare un misterioso dialogo tra la materia e il supporto (abete, solitamente; tela, alcune volte). È un astratto “dialogo” che mira a coinvolgere l’osservatore dell’opera. 

Tra gli altri titoli accademici, sei diplomato in flauto traverso al conservatorio. Come mai proprio il flauto e non, a esempio, il classico pianoforte o il violino o il sassofono?

Ehh… C’era una volta una ragazza. Studiava flauto traverso e aveva tre anni più di me. Di quest’ultimo dato m’importava poco.

Insomma, mi iscrissi al conservatorio per studiare con Caterina. Ironia della sorte, ci incontravamo raramente perché assegnati a docenti diversi. Caterina conobbe altri ragazzi. Io altre ragazze. Così va la vita.

L’esperienza del conservatorio durò dodici anni. Oltre al flauto traverso studiai per bene composizione. Guarda caso, il mio romanzo “Requiem Veneziano” è incentrato sull’esecuzione di un inedito: il Requiem per soprano, coro e orchestra commissionato da un anziano sacerdote a un giovane compositore.

Questo Requiem, evidentemente, “non s’ha da fare”: la soprano Gudrun Kessler, ingaggiata per l’occasione, viene uccisa da un misterioso killer che si firma Il Superuomo.

Il cadavere di Gudrun vaga alla deriva in una gondola, avvolto in un telo.

Chi è Il Superuomo? Perché ha ucciso Gudrun Kessler?

C’è un solo modo di scoprirlo: leggere “Requiem Veneziano”. 

Scrittura, musica, pittura: tutti strumenti della comunicazione che permettono al loro autore di trasmettere un messaggio. Ora, facciamo un gioco: sulla scrivania hai il Libro più famoso del mondo – La Bibbia – aperta alla prima pagina – Genesi, cap.1, versetto 1 e seguenti; in sottofondo riecheggiano le note del prologo del Parsifal, capolavoro immortale di Richard Wagner; alzi gli occhi e vedi un altro capolavoro senza tempo: la Creazione dell’Uomo dipinta da Michelangelo sul soffitto della Cappella Sistina. In poche parole, sei all’interno di tre vertici del sapere umano: a cosa pensi?

Penso a Napoli. Perché là giustamente dicono: “L’amore non vuole pensieri”.

Trovarmi nella situazione che hai descritto zittirebbe ogni parola, ogni vanità.

Semplicemente, assaporerei la bellezza che sgorga dal testo del Genesi, dalle infinite armonie e melodie wagneriane, dal sublime gesto pittorico che solo Michelangelo sa offrire.

Puro amore. 

Nel “Nome della rosa” Umberto Eco è ricorso spesso al latino nello scambio di battute tra i suoi protagonisti; i cabasisi (insieme ad altre espressioni siciliane) di Andrea Camilleri hanno spopolato; nei suoi romanzi, Nathan Marchetti ricorre al veneziano. Alessandro Manzoni ha dunque sciacquato i suoi panni nella lavatrice sbagliata?

Nella poetica di Alessandro Manzoni, come sappiamo, la ricerca linguistica sopravanza quella narrativa. Questa modalità di lavoro ben si apparenta con il concetto di cultura tipico del sistema scolastico italiano. È un concetto di cultura che alimenta, riconosciamolo, un’idea elitaria di cultura. Queste dinamiche costituiscono l’essenza del nostro eterno provincialismo.

Incredibilmente, i protagonisti de “I promessi sposi” sono Renzo e Lucia: due giovani del popolo. Ciò, tuttavia, non smentisce anzi rinforza la sensazione del lettore di trovarsi al cospetto di un artefatto.

Esistono versi “poetici” con cui Manzoni attaccò brutalmente Carlo Porta, suo contemporaneo e conterraneo, perché quest’ultimo scriveva in dialetto milanese. Manzoni gli scaraventò addosso parole durissime. Indegne, oserei dire.

Lungi da me il criticare. Mi limito a guardare intorno. E a operare una scelta: sto dalla parte della gente, lontano dagli artifizi.

Constato un paradosso: la lingua per parlare a tutti è… il linguaggio più personale, più intimo che possiedi.

Può trattarsi del latino medievale di Umberto Eco. Del siciliano coniato da Andrea Camilleri. E, nel mio umile caso, del dialetto che appresi dai genitori e dai nonni.  

A proposito de “Il nome della rosa”, tra Guglielmo da Baskerville e il Venerabile Jorge sta il come gestire il sapere: come si pone Nathan Marchetti in tale conflitto?

Soffermiamoci sull’incipit de “Il nome della rosa”. Ecco le prime tre parole del libro: “Il 16 agosto 1968…”.

Ricordiamo che il romanzo venne pubblicato in prima edizione nel 1980.

Avverto che questa è una mia personalissima teoria: “Il nome della rosa” è una metafora. Esprime la prospettiva dell’Autore sui tumultuosi cambiamenti avvenuti nel periodo 1968-1980.

Il monastero benedettino simboleggia l’università: il mondo a cui Umberto Eco dedicò l’intera esistenza.

Da scuola per pochi, l’università si trovò negli anni Settanta ad accogliere la massa. Questo cambiamento epocale preoccupava Eco. Leggiamo l’introduzione al suo testo del 1977 “Come si fa una tesi di laurea”. Titolo molto semplice, chiaro. Non compaiono termini minimamente tecnici quali guida o manuale. C’è “fa”, voce del verbo fare. Il verbo del volgo.

Quell’introduzione, dicevamo.

Eccola: “Un tempo l’università era un’università di élite. Ci andavano solo i figli dei laureati”.

Era un mondo perfettamente chiuso, insomma. Come un convento benedettino.

Corriamo ora al climax de “Il nome della rosa”: l’incendio della biblioteca.

In estrema, estrema, estrema sintesi, è il contatto tra i francescani (Guglielmo, Adso) e la biblioteca a produrre l’incendio.

Questo è il dilemma posto da “Il nome della rosa”: è meglio che il sapere sia offerto a tutti con il rischio della sua estinzione o forse è il caso che la cultura rimanga un ambito per pochi eletti?

A conti fatti, l’incendio non sarebbe avvenuto se Guglielmo (simbolo del cambiamento radicale) non fosse mai esistito. L’oscurantismo avrebbe salvaguardato i codici. Il sapere. La cultura.

Certo, in tal caso quasi nessuno avrebbe potuto acculturarsi. Però i manoscritti sarebbero fisicamente sopravvissuti per secoli e secoli.

Io non intendo certamente dire che Umberto Eco fosse un reazionario. Semplicemente, tra le righe, egli ci mise in guardia sui rischi insiti in un cambiamento troppo brusco.

Negli anni tra il 1968 (incipit del libro) e 1980 (prima edizione del romanzo) la società mutò interamente. Cambiò anche il modo di approcciarsi alla cultura.

Siamo nel 2021. Com’è andata?

I risultati sono sotto gli occhi di tutti: oggi vigono il pressapochismo, l’iper-settorializzazione, l’ignoranza. Tre fenomeni apparentemente contrastanti. Che sono, in realtà, parenti stretti.

Abbiamo laureati che confessano candidamente di non aver mai (mai!) letto un romanzo, di non aver mai (mai!) ascoltato un concerto sinfonico. Di annoiarsi nei musei.

Cose assolutamente impensabili un tempo, quando storici e ingegneri amavano Hemingway. Quando fisici e avvocati si deliziavano con Mozart. Quando i medici sapevano tutti, dal primo all’ultimo, dove si trova Il Cenacolo di Leonardo.

Di fatto, la rivoluzione di Guglielmo da Baskerville ha vinto. Occorreva, però, evitare lo scontro con Jorge da Burgos.

Sarebbe stato meglio trovare una mediazione, un accordo. Sappiamo che la storia non ama le vie di mezzo: si accavallano guerre su guerre. Conflitti a ogni livello, fisico e metafisico.

Il risultato? Brucia tutto. 

Tu sei di Adria, provincia di Rovigo. Ecco, un detto popolare recita: “’co Rovigo, no me intrigo”. Cos’hai da dire a tua discolpa?

Modestamente, per conquistare il territorio in cui io nacqui, Veneziani e Ferraresi combatterono feroci battaglie tra il 1482 e il 1484.

Vinse Venezia.

Se Venezia lottò per impadronirsi del “Polesine di Rovigo” è segno che ne valeva la pena!

Rovigo possiede più beni culturali di taluni Stati americani. L’Iowa, per esempio.

Tutto sta nel valorizzare le cose.

Fantastichiamo un po’…

Se il mio amato Polesine venisse rigidamente staccato dall’Italia – dove nessuno lo considera – e posato con delicatezza nella Corn Belt (USA), il mondo intero si riverserebbe tra quei campi di mais per ammirare Villa Badoèr, realizzata nel Cinquecento da Palladio. I turisti salirebbero in cima al campanile di Lendinara, sormontato da un meraviglioso angelo. Tutti correrebbero a fotografare la misteriosa “Tomba della biga”, presso il Museo Archeologico di Adria…

Propongo di cambiare nome al Polesine: chiamiamolo Iowa. Allora sì che la gente si lascerà intrigare da Rovigo…

Adria (per non parlare di Venezia), vista anche la sua collocazione geografica, si trova al centro di percorsi acquatici: che rapporto hai con l’acqua?

È un rapporto verificabile, direi, assaggiando la mia sintassi: è fluida, lo dicono tutti.

Sono cresciuto in una terra attraversata da fiumi e canali, tra il Po e l’Adige, a pelo d’acqua se non sotto il livello del mare.

L’acqua è una perfetta metafora della mente. Come l’acqua prende la forma del contenitore, così la mente tende ad adeguarsi al contesto. Nei primi anni di vita, soprattutto.

La superficie dell’acqua è l’io cosciente; il cielo che la sovrasta, il super-io. Avviene un costante battibecco tra il vento e le onde. Ci sono giorni sereni, giorni inquieti, giorni burrascosi…

Poi torna la calma. Una calma apparente. Perché abbiamo le profondità. Le profondità dell’inconscio, intendo, dove tutto sembra immoto, silente, buio.

I romanzi e l’arte provengono da là. Se possono salire a galla è perché esistono da sempre. Occorrono il carisma della creatività e tanto esercizio per riuscire a “tirarli su”. 

Indubbiamente l’acqua richiama il concetto di Natura e la Natura è Vita. Nel film “L’attimo fuggente” viene citata una riflessione tratta da “Walden – Vita nel bosco” di Henry David Thoreau: “Volevo vivere in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, vivere in modo così risoluto e spartano da sbaragliare tutto quanto non fosse vita”. Sempre ne “L’attimo fuggente” sono citati versi di Walt Whitman, dal celeberrimo “O Capitano, mio Capitano”, dedicato alla morte del Presidente Lincoln, all’interrogativo cosa sia la Vita. Ecco, da uomo di lettere quale sei: Thoreau, Whitman, Emerson, secondo te cos’hanno da dire, se l’hanno, all’uomo del XXI secolo in piena pandemia?

Mi inchino profondamente al cospetto dei grandi letterati che hai citato. Essi dimostrano che natura e cultura formano un’unica entità. Un unicum inscindibile. Dal lontano Ottocento, invitano la donna e l’uomo odierni a dialogare con il cosmo per riabbracciare se stessi. Ad ammettere che l’essere umano è signore di niente e parte del tutto.

Questi inviti, secondo me, prescindono dall’attuale situazione pandemica. Il covid non insegna nulla. Non rappresenta un’opportunità. È solo e soltanto un male.

Esprimo dolore per le persone che in questo drammatico frangente hanno perso la vita. La mia vicinanza a tutti coloro che, a qualsiasi livello e per qualunque motivo, soffrono a causa della pandemia.

Speriamo che la bufera passi in fretta. Non perdiamo la speranza! 

Per contrappasso, in un altro celebre film (“Wall Street” di Oliver Stone), Gordon Gekko, finanziere d’assalto, esalta l’avidità: panacea o uno dei mali del mondo?

Ricordo la scena di “Wall Street” in cui Gekko fa il suo famoso discorso. Appeso alle spalle ha un quadro interessante. È arte contemporanea che, per lui, costituisce unicamente un investimento.

Quando vidi il film di Oliver Stone pensai: o ti concentri sull’essenza del quadro o sul valore finanziario che detiene.

La penso ancora così. Avidità, d’altronde, significa etimologicamente “non vedere”. 

È risaputo che in Italia si pubblica tanto ma si legge poco: allora perché bisognerebbe scrivere? E leggere è davvero così importante?

Parto dall’ultima domanda. La risposta è sì: leggere è importantissimo. Fondamentale. Consente di indagare la realtà, di comprendere meglio se stessi e gli altri. In questo specifico periodo, i libri permettono a milioni di lettori di andare dove vogliono: si può evadere in una storia!

Perché scrivere? Per lavoro, nel mio caso. Scrivo professionalmente da vent’anni. Lo dice la carta d’identità.

Professione: scrittore.

Iniziai perché Silvia, una graziosa signorina che conobbi all’università, m’indicò l’indirizzo di una casa editrice con cui lei stessa aveva lavorato.

Io ascolto sempre i consigli delle donne.

Da allora ho firmato contratti con sette editori in cinque diverse città italiane. Ho partecipato alla realizzazione di moltissimi progetti editoriali, soprattutto in ambito scolastico e nel campo delle riviste specializzate. In un paio di casi feci e favorii accordi di coedizione tra aziende altrimenti rivali.

Dall’estate del 2018 mi dedico con infinita gioia al giallo-noir insieme a Fratelli Frilli Editori: la Casa Editrice con cui lavorerò per il resto della mia vita.

Si dice che vengano stampati “troppi libri”. Secondo me la questione è un’altra: cosa chiedono i lettori? I lettori veri, forti, entusiasti pretendono la qualità più autentica.

Quando compare un romanzo valido, il passaparola lo fa decollare. Se un libro merita, verrà ristampato per decenni. 

Prendendo spunto da un tuo incontro con un blog culinario (reperibile in Rete), viene da chiedersi: chi cucina in casa di Nathan Marchetti?

Qui cucina “La Ferrarese”, ovvero la mia meravigliosa compagna Cristina.

Ferrara è un must sotto il profilo culinario. La tradizione ferrarese è semplicemente unica, davvero eccellente.

Alcuni piatti? Salamina da sugo, cappellacci di zucca, pasticcio ferrarese… Solo a nominare queste leccornie sento l’acquolina in bocca… 

In varie tue interviste disponibili in Rete parli della somiglianza fisica di tuo padre col mitico Ernesto “Che” Guevara. Al di là di questo punto di contatto, per te, il “Che”, cosa rappresenta?

Conservo un libriccino fotografico edito da L’Unità nel 1987, vent’anni dopo la tragica uccisione di Che Guevara. Fu più o meno in quegli anni che iniziai a leggere il celebre Diario e altri scritti. Ebbero notevole importanza nella mia formazione personale.

Trovo in Che Guevara un esempio di abnegazione. Commise degli errori, lo sappiamo. Chi non ne ha commessi?

Va riconosciuto che egli rinunciò alla poltrona di ministro per lottare fino in fondo, per portare a compimento l’ideale in cui credeva. Ben pochi politici, ieri come oggi, sembrano disposti a fare altrettanto. Quasi nessuno parla mai di giustizia sociale. Era proprio questo, l’ideale del Che. 

Se dico “donna”: Enzo Fellini (per chi non lo sapesse: il commissario protagonista dei romanzi di Nathan Marchetti) e Nathan Marchetti cosa rispondono?

Il commissario Enzo Fellini è sempre interessato alla questione. Se volevi distrarlo dall’indagine in corso, ci sei riuscito alla grande. Se dici “donna”, infatti, lui comincia a pronunciare frasi sconnesse. In Requiem Veneziano va a cacciarsi nei guai per questa sua conformazione mentale…

Donne? Il sottoscritto risponde: grazie. Perché io amo le donne. Ne venero il fascino, l’intelligenza, l’intuito, il gusto… Le donne accompagnano la mia vita lungo le strade giuste. Desidero davvero dire grazie alle donne. A tutte le donne. Grazie di cuore! 

E con queste parole, ringraziamo il nostro Ospite per la disponibilità e per il tempo che ci ha concesso.

Grazie mille e alla prossima!

Grazie infinite a voi! A presto!