“Anuket e il mistero del Fuoco Sacro” di Cinzia Maria Corsaro

Cinzia Corsaro Premio

 

ANUKET E IL MISTERO DEL FUOCO SACRO 

Di Cinzia Maria Corsaro       

Il faraone Djoser guardava il sole tramontare su un’altro arido giorno dalla terrazza della sua maestosa dimora nella, un tempo opulenta, città di Menfi, capitale dell’intero Egitto.

Si avvicinò alla balaustra di tufo, allargò le braccia con i palmi rivolti verso l’alto, chiuse gli occhi e si rivolse a Ra in muta preghiera:

«Padre, Ra, parlami, ti prego! Perché mi hai abbandonato? Tu mi hai messo qui, tu mi hai chiesto di regnare tra queste genti ed io l’ho fatto. Mi hai chiesto di diventare il tuo sommo sacerdote, ed io l’ho fatto. Ti ho onorato rispettando ogni rituale che la tradizione impone con devozione e rispetto: perché dunque ci fai questo? Perché da sette anni bruci la terra a te sacra? Perché stai affamando i tuoi figli? Padre, ti supplico, parlami! Dove sto sbagliando? Cosa ho fatto per meritare la tua ira? Dammi un segno, dimmi cosa devo fare per salvare il tuo popolo, i miei figli da questa calamità! So che in te c’è tanto amore, conosco il tuo cuore e non posso pensare che resti indifferente alla sofferenza e alla morte di tanti innocenti. Chiedimi ciò che vuoi, sono pronto anche a morire pur di salvarli.» 

«Mio Signore, il sole è tramontato, vieni, è stato un duro giorno, hai bisogno di riposare» la voce dell’amata Hetephernebti lo ridestò.

«Mia fonte preziosa, mia regina, come posso io riposare sapendo che il mio popolo soffre?» Disse Djoser, prendendole le mani, sinceramente afflitto per quei lunghi sette anni di siccità che stavano devastando il suo regno.

«Non temere Djoser, non perdere la fede. Tuo padre Ra sa quello che fa, ogni cosa risponde ad un ordine divino» rispose la sua sposa con una serenità nello sguardo che lo disarmò.

«Ma stanno morendo! Hanno fame! Non possiamo reggere ancora a lungo, le riserve stanno finendo, capisci che cosa significa questo? Dovrò muovere guerra verso altri popoli per sfamare i nostri figli e non voglio farlo, non più! Anche loro sono innocenti, anche loro sono inconsapevoli figli di Ra, non avrebbe senso ucciderli per sfamare la nostra gente, non sarebbe giusto ma se non torneranno le piogge non avrò altra scelta. Il capo dell’esercito spinge da tempo per farmi muovere guerra, non potrò continuare per molto a rimandare l’inevitabile».

Hetephernebti gli sorrise: «Amore mio, ogni cosa accade per un disegno divino, abbi fede, spegni la ragione e accendi il tuo cuore e vedrai che Ra ti dirà cosa fare»

Djoser guardò estasiato la moglie, sentendosi piccolo davanti la grandezza della sua fede. Le prese il viso tra le mani e la baciò con trasporto, sentendo di desiderare quella donna più di ogni altra cosa al mondo, ringraziando il Padre per quel dono meraviglioso che adesso si abbandonava al suo abbraccio, nel quale trovò finalmente pace.

«Djoser, figlio mio, mi hai chiamato, che succede?»

Il faraone aprì gli occhi e si guardò intorno: «Dove sono?» chiese, vedendosi avvolto da una fitta luce calda che si estendeva all’infinito, ovunque intorno a lui, come non ci fosse un sopra ed un sotto, sospeso in essa.

«A casa, non la riconosci più? Eppure non è da tanto che ti trovi tra gli uomini» disse Ra, uscendo dalla luce ed andandogli incontro con aria allegra.

«Padre, tu?» Esclamò stupito Djoser, scattando in piedi correndogli incontro, felice come non si sentiva da tanto tempo.

«Beh, almeno mi riconosci, è già qualcosa! Vieni qui, abbraccia tuo padre ragazzo» rispose Ra, afferrandolo ed attirandolo a sé, facendolo scompartire nel suo possente petto. Djoser si lasciò andare all’amore paterno, sentendo solo in quel momento quanto gli fosse mancato.

«Allora figliolo, mi dici cosa c’è che ti turba?» disse Ra, accarezzandogli amorevolmente il viso. Djoser restò qualche istante a fissare il volto del padre. Era così bello! Sarebbe rimasto in eterno in adorazione della sua luce, ma sapeva che non era ancora il momento di tornare a casa.

«Padre, tu lo sai cosa mi turba. Il popolo che mi hai mandato a guidare sta morendo, tutta la terra muore sotto il tuo fuoco. La siccità porta morte e la morte chiama guerra: aiutami a fermare tutto questo, ti prego!» Rispose accorato Djoser, suscitando la commozione del Padre.

«Figlio mio, pensi veramente che io possa bruciare la terra ed uccidere le mie creature? Hai davvero in così poco tempo dimenticato chi sono?»

Djoser avvampò di vergogna: «No! Certo che no! Oh Padre, ma che sta succedendo allora? Cosa sta bruciando la terra? Cosa posso fare? Io devo salvarli!»

Ra gli sorrise, guardandolo con infinita dolcezza. «Basta che ti guardi intorno e lo vedrai cosa succede. Cosa nutre il mio cuore?»

Djoser sorrise «l’amore della tua sposa, Hathor» rispose senza esitazione, sentendo stringersi il cuore al pensiero della Madre.

Ra annuì «È l’amore per lei che mi rende così creativo! Ogni cosa che esiste esiste solo per lei, per renderla felice. Figliolo, cos’è dunque che genera vita?»

Djoser si illuminò «l’Amore! È dunque questo che sta mancando? È questo che rende arida la terra?»

Ra annuì «Così come ha inaridito prima il cuore dei nostri figli»

Djoser scosse la testa preoccupato «Ma come posso fare per riportare l’amore nei loro cuori?» «Regalandogli una favola!»

Djoser sgranò gli occhi stupito «Una favola?!»

«Si, figliolo, una favola! La più bella favola d’amore, capace di riportare la speranza e riaccendere i cuori! Ti sei un po’ irrigidito laggiù, lo sai? Forza ragazzo, un po’ di fantasia! Non sei il pupillo di Hathor per nulla, hai preso tutta la sua grazia e la sua infinita creatività, sforzati un po’!» Lo stuzzicò ridendo Ra

«Una favola… Ma sì, forse, forse ho capito!» Esclamò Djoser.

«Dai, non farmi stare sulle spine, dimmi che cosa ha partorito la tua mente fertile, sono tutto orecchi!» Disse Ra sedendosi su una una panchina di pietra sputata dal nulla, invitando il figlio a fare altrettanto.

«Hai presente Hersa Essei, il più giovane e talentuoso Gran Sacerdote di Thot?» Ra fece una smorfia «bello come il sole, intelligente come Thot, e non è poco, e con il cuore di granito! Sembra figlio di quel disgraziato di tuo zio Seth!»

Djoser rise «Sì, è lui! La sua fama di grande Mago, medico e soprattutto geniale architetto ha valicato perfino i confini del regno grazie dalle sue opere ma è noto anche per la sua durezza»

Ra scosse il capo «Thot è un genio ma è un tipo simpatico! Racconta sempre un sacco di storie divertenti ed ha un grande cuore! Ma questo suo discepolo è un vero orso! Peccato, tanto talento sprecato! Le sue opere sono belle ma sterili, senz’anima, proprio come lui»

Djoser saltò sulla panchina come un grillo «Appunto! Se riuscissi a farlo innamorare sarebbe, sarebbe…»

«Un miracolo!» Concluse Ra.

«Appunto! Sarebbe la favola che accenderebbe la fiamma nei cuori di tutto il Paese riportando la speranza e con lei la vita!»

Ra corrugò la fronte toccandosi il mento «Sì, sì, è questa la chiave, ma a questo punto serve l’intervento di Hathor»

Djoser si aprì in un sorriso capace di accendere il cielo «Parli tu alla mamma? Per te ha un debole, lo sai» disse ammiccante, facendolo arrossire.

«Beh, ecco, si, lei, lei è, insomma va bene, ci parlo io. Tu al risveglio vai da Hersa Essei e digli che io gli ordino di incamminarsi lungo il Nilo in direzione della fonte e di continuare a camminare finché non vedrà il segno»

«Quale segno?» Chiese curioso Djoser.

«E io che ne so? Non ho ancora parlato con tua madre! Qualcosa si inventerà, sai com’è fatta, tu intanto mandalo in cammino e mi raccomando, non deve tornare indietro finché non avrà ricevuto segno: ci sarà da divertirsi!» Disse Ra ridendo, dando una pacca sulle spalle del figlio che lo rispedì nel suo letto facendolo svegliare di botto.

«Amore mio, tutto bene?» Chiese la bella Hetephernebti, svegliandosi di soprassalto.

«Oh sì, benissimo! Avevi ragione, Ra è un grande! Devo andare!» Disse Djoser baciandola felice prima di schizzare giù dal letto con una vitalità che fece ben sperare la sua sposa sulle sorti d’Egitto.

Quando Djoser arrivò al tempio di Thot trovò Hersa Essei, come sempre chino alla scrivania intendo a progettare chissà quale diavoleria delle sue, talmente concentrato che non si accorse del faraone finché questi non tossicchiò rumorosamente. «Signore! Vogliate perdonarmi, non vi ho sento entrare» disse il giovane sacerdote, inchinandosi davanti al suo Faraone.

«Alzati Hersa Essei e seguimi, dobbiamo parlare» disse secco Djoser, avviandosi verso la stanza attigua. Una volta soli le guardie reali chiusero la porta e si posero all’esterno in modo che nessuno potesse né sentirli né disturbarli, mettendo in allerta gli acuti sensi di Hersa Essei.

Djoser lo lasciò cuocere nel suo brodo per svariati minuti, rimanendo in silenzio a guardare fuori dalla finestra in apparente stato meditativo e solo quando sentì che il giovane cominciava a perdere la sua ostentata sicurezza si voltò piano e lo fissò negli occhi, facendogli tremare le ginocchia. «Questa notte mio padre, Ra mi ha chiamato per ordinarti di incamminarti lungo il Nilo in direzione della sua fonte. Dovrai partire subito. Porterai con te solo qualche pezzo di pane e un mantello per proteggerti dall’umidità della notte. Dovrai camminare da solo finché non ti arriverà il suo segno. Allora ti fermerai in quel punto e non tornerai indietro finché non avrai ricevuto ulteriori ordini da Ra su cosa fare per sconfiggere la siccità e riportare la vita sulla nostra terra. Sono stato chiaro?» Disse il Faraone, senza mai distogliere lo sguardo dai suoi occhi.

«Sì, mio Signore» rispose il giovane chinando il capo.

Djoser si avviò verso l’uscita e quando gli fu accanto disse: «nelle tue mani il Ra ha riposto le sorti dell’Egitto, rendimi fiero di te, figlio mio» ed uscì dalla stanza, lasciandolo solo con mille pensieri che cominciarono a vorticare nella sua giovane e brillante mente.

Dopo qualche minuto Hersa Essei riprese a respirare. Uscì dalla stanza ed ordinò ad un giovanissimo apprendista di preparargli una sacca con del pane e una coperta, raccolse i suoi papiri riponendoli con cura nella sua stanza, si avvolse il turbante in testa, ringraziò Thot per la sua benevolenza chiedendo, come sempre, la sua benedizione, prese la sacca preparata con dovizia dall’attendente e si incamminò verso il suo destino.

Era giugno e faceva già molto caldo, ma Hersa Essei era talmente tronfio per il grande onore ricevuto da non sentirlo. Camminava dritto, con la testa alta, fiero, pensando che finalmente, dopo tanti sacrifici, dopo tanto studiare, Ra non solo si era accorto di lui ma lo aveva scelto, al posto del suo stesso figlio, il faraone, per salvare l’Egitto: cosa poteva chiedere di più? Camminava e sorrideva: il mondo era suo! Thot glielo aveva detto, gli aveva profetizzato che grande sarebbe stato il suo destino ed ora il tempo era giunto. Alzò gli occhi al cielo, colmo di gratitudine:

«Grazie, grazie padre, lascia che ti chiami così, ti prego, perché tu sei l’unico padre che io abbia mai conosciuto. Tu mi hai accolto quando mia madre mi ha abbandonato davanti al tuo tempio subito dopo avermi dato alla luce, rifiutandosi perfino di guardarmi. Tu mi hai cresciuto insegnandomi le arti della magia, della scienza, della medicina, dell’architettura, tu hai sempre creduto in me ed io ho fatto di me il tuo tempio, facendo del mio meglio per renderti onore. Solo tu hai creduto in me e se oggi il Ra si è accorto di me lo devo solo a te: ti supplico, non privarmi mai il tuo sguardo amorevole perché è tutto ciò che ho.» 

Ed era vero. Hersa Essei era stato lasciato davanti al tempio di Thot venticinque anni prima, avvolto in un pezzo logoro di lino sporco di sangue e liquido amniotico, con il cordone ombelicale tagliato alla meno peggio, in una notte fredda di dicembre, talmente infreddolito da non riuscire neanche a piangere. Thot ebbe compassione di quella piccola creatura innocente, si manifestò come uomo, lo raccolse da terra, lo scaldò tra le sue braccia e lo consegnò ai suoi sacerdoti dicendo loro che quello era suo figlio e che come tale lo avrebbero dovuto crescere ed educare. Da quel momento in poi sarebbe stato sempre presente nella sua vita, permettendo solo a lui di vederlo in Spirito e di poterlo chiamare ogni volta che ne avesse avuto bisogno.

Fu Thot stesso ad insegnare al ragazzo tutto ciò che sapeva, affezionandosi così tanto da considerarlo veramente un figlio. Ma Thot, per quanto lo amasse, era pur sempre un uomo e uno scienziato e non riuscì a trasmettere al ragazzo l’amore materno di cui avrebbe avuto diritto a nutrirsi, come ogni creatura. Così Hersa Essei crebbe in grazia e bellezza ma incapace d’amare. Nessuno mai a Menfi dubitò che lui fosse suo padre, considerato che il ragazzo aveva colori molto diversi dai loro, dagli occhi azzurri come il cielo, la pelle nivea ed i capelli biondi come oro, per cui venne sempre trattato con rispetto e deferenza ma anche con timore e distanza, acuendo quel senso di vuoto nel cuore del ragazzo, sempre più chiuso in sé stesso, nei suoi studi e nell’arte della guerra, trovando sfogo alla sua solitudine nei campi d’addestramento militare.

Thot se ne era sempre fatto un cruccio e quando Hathor lo chiamò per coinvolgerlo nel piano per salvare l’Egitto dalla siccità vide finalmente l’opportunità di aprire il cuore del suo amato ragazzo, per quanto dura sarebbe stata per lui quella prova. E tale fu.

Al quinto giorno di cammino la sicurezza di Hersa Essei cominciò a scarseggiare così come il suo pane, di cui erano rimaste solo poche croste dure. Per fortuna l’acqua non mancava, non sarebbe morto disidratato ma sicuramente, se continuava così, sarebbe morto di fame.

A mezzogiorno del settimo giorno si fermò sulla riva del fiume accorgendosi che il pane era finito. Gettò con rabbia la sacca e si accasciò a terra con la testa tra le ginocchia.

Di Ra nessuna notizia e la fatica stava avendo il sopravvento perfino su un corpo atletico e giovane come il suo.

Un Ibis blu planò sull’acqua schizzandolo e risvegliandolo dal torpore «Padre Thot, siete qui? Non vi sentivo più!» Esclamò il giovane alzando la testa, sentendosi inumidire gli occhi. L’ibis si sollevò sull’acqua allungando il collo e sbattendo armoniosamente le belle ali, come se volesse incoraggiarlo «Sì, lo so, non devo demordere. Io, io sono solo un po’ stanco e, a dire il vero ho molta fame, ma ho l’acqua e mi basterà, me la farò bastare» disse il giovane, sentendo strani brividi di freddo sotto un sole che picchiava duro.

Thot si preoccupò, il ragazzo non stava bene, si avvicinò e allungò un’ala sulla sua fronte: scottava!

«Grazie padre Thot, avevo bisogno della vostra benedizione, ora mi sento meglio» disse il ragazzo alzandosi a fatica in piedi, riprendendo la sacca «sapere che mi state accanto mi dà la forza di andare avanti. Ra mi sta mettendo alla prova, ora l’ho capito, ma io sarò all’altezza delle sue aspettative, ve lo prometto: non vi farò sfigurare dinanzi al nostro Signore» e così dicendo Hersa Essei si incamminò a passo incerto e tremante mentre l’Ibis volò via, scomparendo.

Alla sera, quando il sole tramontò, rivelando la bellissima volta stellata nel cielo d’Egitto, Hersa Essei cadde sulle ginocchia, stremato, tremando come una foglia. Aprì la sacca, prese la coperta, se l’avvolse intorno al corpo e si raggomitolò a terra, respirando affannosamente.

«Sta male, ha la febbre alta, è affamato e stremato, non credi di avere piegato abbastanza il suo ego?» Chiese Thot ad Hathor

«Quel ragazzo è duro come il granito» rispose asciutta Hathor, ma Thot sapeva che il suo immenso cuore di Madre stava cedendo davanti a quel cucciolo d’uomo sofferente.

«Non è colpa sua ma mia, non sono un granché come madre, quindi se devi punire qualcuno, punisci me, ma ti prego, abbi compassione per quel povero ragazzo»

Hathor si girò verso di lui guardandolo con dolcezza «lo ami come un figlio, vero?» Thot annuì commosso «Sì, mia Signora, lui è mio figlio» Hathor gli sorrise soddisfatta «Era ora che il tuo vecchio e duro cuore si ammorbidisse, amico mio. Magari un giorno mi darai anche la gioia di innamorarti, chissà! E sia, le pene del tuo ragazzo finiscono qui, speriamo che non debba pentirmene»

Hersa Essei intanto, ignaro di tutto, stretto nella sua coperta, tremava e sudava, trovando un po’ di conforto nella bellezza della volta celeste che sembrava cullarlo. Mentre era assorto dalla bellezza del creato, un rumore improvviso di acqua smossa lo destò costringendolo a voltarsi verso il fiume rimanendo esterrefatto «sto morendo» biascicò vedendo una luce bellissima uscire dal centro del letto del fiume ed avvicinarsi verso di lui.

Man mano che la luce di avvicinava prendeva forma, rivelando ben presto una bellissima donna dai lunghi capelli biondi la cui leggera veste bagnata, uscendo dall’acqua, svelava la statuaria maestosità di un corpo armonico, perfetto ed infinitamente sensuale «mai così dolce fu la morte per un cuore mortale» sussurrò Hersa Essei, chiudendo gli occhi febbricitanti per un istante, tanto quanto bastò a quella creatura sublime per chinarsi su di lui ed accendere il suo cuore nel profondo del verde e dell’azzurro dei suoi occhi di luce quando, riaprendo gli occhi, li vide su di lui, così grandi e luminosi da comprendere in quell’istante la logica che sottendeva alla creazione, sentendo per la prima volta battere davvero il suo cuore «grazie Ra, grazie padre Thot, ora so, ora ho compreso, ora posso morire felice» sussurrò prima di perdere i sensi.

Passarono tre giorni in cui Hersa Essei, in preda alla febbre alta, vide Anubi pesargli l’anima e, accompagnato da suo padre Thot, attraversare il Duat fino a trovarsi ad un passo da Osiride. Ma proprio quando stava per trovarsi al suo cospetto, un profumo di cannella ed incenso lo richiamò, costringendolo a voltarsi indietro ed aprire gli occhi: «Buongiorno! Finalmente ti sei svegliato. Tieni, bevi»

Hersa Essei non credette ai suoi occhi: la meravigliosa creatura che aveva visto uscire dal Nilo era china davanti a lui con una ciotola in mano, bella come un fresco mattino di primavera, luminosa e preziosa come l’alba

«Cos’è, non hai mai visto una donna? Forza, tirati su e bevi!» È burbera come una tempesta d’agosto, pensò Hersa Essei, tirandosi su a fatica.

«Sono morto?» Chiese con innocenza disarmante.

«Sarebbe stato sicuramente meno impegnativo per me se lo fossi stato, ma no, desolata, sei vivo. Bevi»

Hersa Essei prese la ciotola, diede un sorso e si illuminò: non era solo latte e miele, era il paradiso!

«Calma, calma, non bere così velocemente o ti verrà da vomitare» disse la donna, sentendo incrinarsi pericolosamente il guscio duro intorno al suo cuore dinanzi a tanta ingenuità.

«È buono» rispose Hersa Essei, facendola sorridere.

«Sì, lo è, ma tu non mangi da giorni» disse mettendogli una mano sulla fronte, facendolo arrossire «La febbre è passata, te ne puoi andare. Ho preparato una barca per te e viveri a sufficienza. Prenditi il tempo che ti serve, mangia con moderazione il cibo che troverai sulla tavola, riposa e domani torna a casa» disse la donna facendo per alzarsi ma Hersa le afferrò la mano e la trattenne:

«Aspetta, non mi hai detto neanche come ti chiami! Mi hai salvato la vita e ora mi mandi via così, perché?»

«Ti ho salvato solo perché Thot me lo ha chiesto, non ho tempo per salvare tutti gli idioti come te che decidono di morire bruciati sotto il sole del deserto! E comunque, la prossima volta, se vuoi davvero morire, attaccati una pietra al collo e gettati nelle mie acque: avrai più successo, fidati!» Rispose la donna indispettita, liberandosi dalla sua presa.

«Non volevo morire, io sono in missione per conto di Ra, mi ha chiesto di seguire a ritroso il corso del Nilo finché non mi avrebbe dato un segno»

La donna scoppiò a ridere: «ah, ma davvero? Oh cielo, adesso pure i matti raccoglie Thot! Comunque, direi che il segno lo hai ricevuto, forte e chiaro visto che stavi per morire!» Disse alzandosi.

«Aspetta, dimmi almeno il tuo nome!» La implorò Hersa Essei alzandosi in piedi e crollando subito a terra.

«Essei!» Esclamò la donna chinandosi preoccupata, un po’ troppo per i suoi gusti, su di lui.

«Sai il mio nome» disse il ragazzo alzando i suoi bellissimi occhi azzurri su di lei.

«Sì, certo che lo so, io non sono umana» rispose la donna, distogliendo lo sguardo con la scusa di riprendere la ciotola di latte e miele: «Io sono Anuket, figlia di Ra, dea del Nilo e se non te ne fossi accorso sono sette anni che il fiume soffre per via della siccità e con lui tutto l’Egitto, quindi, se non ti dispiace, io devo andare a risolvere questa storia prima che tutti muoiano, te compreso. Ora bevi, riposati, e appena starai bene vattene, torna a casa, non è posto per te questo» ma Hersa Essei non aveva nessuna intenzione di andare via.

«Scusami, tu mi hai salvato ed io ti sto infastidendo» disse cercando di rimettersi in piedi, tenendosi alla parete con aria sofferente.

«Come devo fartelo capire che devi riposare?! Vieni, siediti» disse Anuket, aiutandolo ad arrivare fino alla sedia, mettendogli il braccio intorno alle sue spalle per farlo poggiare

«Dovrei essere io a sostenere te. Anuket, lascia che ti ripaghi per quello che stai facendo per me, lascia che ti aiuti a far tornare la piena»

Anuket questa volta non disse nulla, lo fece sedere e si sedette di fronte a lui, cercando di capire perché quel giovane uomo la facesse sentire così fragile.

«Non è missione per te. Sei un sacerdote, umano e debole ed io devo tornare sulle Montagne della Luna, alla foce, per liberare Hapi, dio delle piene, tenuto prigioniero da Apopi, il serpente nemico di mio padre, come credi di potermi aiutare? Ascolta me, torna a casa»

Hersa Essei le pose una mano sulla sua, fissandola con tanta intensità da farla tremare:

«Io non ho una casa, io non ho nessuno che mi aspetta e non mi importa di morire. È vero, sono un sacerdote ma sono anche un soldato. Dammi un giorno per riprendermi e ti prometto che non ti deluderò»

«E la missione di mio padre?»

Hersa Essei sorrise: «Tu sei il segno che aspettavo e tu la missione che mi ha affidato, ora lo so, lo sento» disse mettendosi istintivamente l’altra mano sul cuore.

«E sia, ma prima dovrai andare a lavarti, puzzi come un caprone!» Rispose Anuket, liberandosi delicatamente questa volta dalla sua presa, battendo le mani e richiamando due bellissime fanciulle che entrarono nella stanza a capo chino.

«Portate il nostro ospite a fare un bel bagno, ripulitelo, gettate le sue vesti e dategliene delle nuove pulite» ordinò Anuket alzandosi ed avviandosi verso la porta.

«A domani» lo salutò uscendo, senza voltarsi.

«A domani, figlia del sole» rispose tra sé e sé Hersa Essei, seguendo le fanciulle senza riuscire a distogliere lo sguardo dalla sua schiena nuda, ricoperta dai lunghi capelli dorati.

L’indomani, di buonora, Anuket entrò nella stanza del ragazzo e arrossì vedendolo allenarsi seminudo, mettendo in mostra un corpo decisamente notevole.

«Disturbo?» Hersa Essei, appeso ad una trave dove stava facendo le trazioni, sentendo la sua voce, con un salto venne giù, afferrando subito il lenzuolo riverso sulla sedia per coprirsi ed asciugarsi.

«Anuket, scusami, io, io non ti ho sentita entrare» bofonchiò imbarazzato, facendola sorridere.

«Vedo che il bagno ti ha fatto bene, o forse è stata la compagnia delle mie ancelle a ridarti vigore» disse Anuket, sistemando sulla tavola pane, formaggio e latte ed invitandolo a sedersi.

«Si, cioè no, insomma io, io avevo bisogno di un bel bagno è vero ma ho chiesto alle tue ancelle di lasciarmi solo» rispose imbarazzato, avventandosi sulla colazione come un ragazzino affamato.

«Non erano di tuo gradimento? Forse avresti preferito due giovanotti?» Lo provocò Anuket che non capiva perché fosse così contenta che avesse ignorato le grazie delle sue sacerdotesse. «Cosa? No! No, io, loro sono bellissime ma io, io volevo solo fare un bagno. Mi dici in cosa consiste la missione?» Rispose Hersa Essei, rosso come l’alba che li stava avvolgendo in quel momento, entrando dall’ampia finestra volta ad est, cambiando strategicamente argomento.

«Te l’ho detto. Hathor mi ha informata che Hapi non era scomparso ma era stato rapito da Apopi, quel viscido enorme biscione, che lo tiene prigioniero dentro uno dei ghiacciai delle Montagne della Luna. Apopi è stato mandato da Seth, ovviamente! Quel rifiuto del Duat sembra avere come unico divertimento portare morte e distruzione!»

Hersa Essei annuì. «Lo fermeremo, tuo padre è più potente di lui e se tu sei sua figlia non sarai da meno, non temere, metteremo a posto le cose, vedrai».

La dolcezza con cui le rivolse quelle parole la dissuasero a dirgli la verità, e cioè che portare lui con sé l’avrebbe messa in pericolo dovendo risalire il fiume in barca come una mortale e, di conseguenza, divenendo entrambi bersaglio delle bestie immonde di Seth, con la preoccupazione di doverlo pure proteggere, come gli aveva chiesto Thot. Non capiva perché il padre avesse voluto complicarle così le cose, sapendo quanto importate fosse quella missione ma non aveva mai dubitato delle sue scelte e non lo fece neanche questa volta.

«Vestiti e raggiungimi al fiume, la barca è già pronta, le mie ancelle ti porteranno le vesti che dovrai indossare e la spada forgiata da mio padre, l’unica capace di uccidere le creature immortali. Mi auguro che tu sia all’altezza di reggerla» disse Anuket, andando via, anche questa volta, voltandogli fiera le spalle.

E fu così che per Hersa Essei cominciò il viaggio più incredibile della sua esistenza, convinto che lo avrebbe portato alla gloria, anche se, senza capirne il perché, sentiva che adesso non era più così importante.

Anuket muoveva la barca controcorrente con la potenza del suo pensiero, bella e nobile nell’aspetto e nella postura, dritta in piedi, sulla prua con lo sguardo fisso davanti a sé, con chissà quali pensieri, pensava Hersa Essei, sperando inconsapevolmente che uno di quei pensieri fosse lui.

I primi due giorni di navigazione furono sereni. Anche il sole sembrava meno cocente grazie alla frescura delle acque e alla cappottina che Anuket aveva fatto mettere al centro dell’imbarcazione per proteggerlo dal sole, sotto la quale, su richiesta di Hersa Essei, Anuket gli faceva compagnia durante i frugali pasti, cominciando così a conoscersi.

All’alba del terzo giorno, però, quell’armonia felice venne brutalmente spezzata dall’arrivo di Ammit, la gigantesca bestia dalla testa di coccodrillo ed il corpo a metà tra un leone e un ippopotamo, che per poco, uscendo furiosa dalle acque davanti alla barca, non la ribaltò.

«Stai giù e tieniti forte!» Urlò Anuket balzando subito sulla punta della prua sguainando la sua spada, pronta ad affrontare Ammit che la fronteggiava schiamazzando e smuovendo pericolosamente le acque.

«Riesci a farlo avvicinare?» Urlò lui, disattendendo i suoi ordini

«Ma che vuoi fare?!» Urlò Anuket, faticando non poco a stabilizzare l’imbarcazione tra le onde. «Fidati di me, non c’è tempo, fallo avvicinare più che puoi» rispose Hersa Essei, accovacciandosi nella posizione della rana con la mano sull’elsa della spada.

Anuket sospirò arrendendosi «E sia, ma vedi di non farti ammazzare!» disse, lanciando un’onda contro la bestia per farlo innervosire.

Ammit si imbizzarrì urlando e sbattendo con ancora più veemenza le zampe e il muso sull’acqua. «Sta funzionando, continua!» Urlò Hersa Essei, con i muscoli tesi come corde di violino e lo sguardo fisso davanti a sé.

Anuket allora cominciò a bombardare la bestia con onde a raffica finché Ammit non ne poté più e si scagliò con un balzo su di lei ma, appena fu a mezz’aria, Hersa Essei gli saltò in groppa e con entrambe le mani gli infilò la spada dietro il collo, alla base della testa, uccidendolo sul colpo. «Wow! Bel colpo per un mortale gracilino come te!» Esclamò divertita Anuket.

«Grazie, soprattutto per il gracilino! Mi daresti una mano?» Rispose Hersa Essei, cominciando ad affondare insieme al corpo del mostro.

«Non mi dire che il grande mago di Thot non sa nuotare?» Lo canzonò Anuket.

«No e non prendermi in giro!» Rispose Hersa Essei cominciando a prendersi di panico mentre affondava.

«Vieni qui, dammi la mano» disse Anuket divertita, sporgendosi per aiutarlo a risalire a bordo. «Sai, se non fossi un mortale, saresti quasi interessante» disse porgendogli un telo per asciugarsi.

«Tu, invece, anche se fossi sta umana, saresti stata comunque divina» rispose Hersa, pensando sinceramente che fosse una creatura meravigliosa; ma, a quanto parve, lei non afferrò il senso delle sue parole, infuriandosi:

«È questo dunque che vuoi, l’immortalità! Tu non mi stai seguendo per aiutare la tua gente ma per esaltare la tua vanagloria!» lo aggredì con occhi duri come macigni.

«E anche se così fosse? Cosa c’è di male nel cercare la gloria? E poi cosa ne sai tu di me? Dici di conoscere tutto e tutti in quanto Dea ma non sai niente di me, altrimenti sapresti che non devo nulla alla mia gente perché nulla mi ha dato!» Rispose Hersa Essei con gli occhi umidi di rabbia e dolore.

«Come osi parlarmi così! Tu sei solo un miserabile mortale, un sospirò nella mia eternità! Sei solo un egoista, borioso, egocentrico pallone gonfiato che crede che tutto gli sia dovuto solo per diritto di nascita!» Rispose Anuket accorata, sentendosi punta nel vivo.

«Io?! Si, va bene, io sarò anche un pallone gonfiato ma tutto quello che sono non mi è stato regalato da nessuno, me lo sono dovuto sudare! Mia madre mi ha gettato come fossi spazzatura, Thot mi ha affidato ai sacerdoti del suo tempio che non riuscivano a guardare nei miei occhi, troppo chiari, troppo diversi, costringendomi a rasare il capo per nascondere i miei capelli biondi e tenendomi sempre a distanza come fossi appestato! Niente mi è stato concesso per nascita ma tutto mi è stato tolto e se avessi un minimo di amore nel tuo cuore lo sapresti! Ma tu, tu sei la Dea! Il tuo ego è troppo in alto per poter anche solo volgere il tuo sacro sguardo su di noi mortali, non è così? La mia pelle ti puzza di morte, vero, mia Signora?!» Disse Hersa Essei, avvicinandosi così tanto da sfiorarla.

«Sono belli i tuoi occhi» disse Anuket con insolita dolcezza, spiazzandolo, alzando poi una mano per accarezzargli i biondi capelli che, dopo due settimane, erano già ricresciuti, brillando come oro alla luce del sole «La bellezza può far male a chi non la comprende, per questo non osano guardarti, per non accecarsi» disse Anuket, distogliendo lo sguardo e ritirando la mano ma Hersa Essei la trattenne, facendosela scivolare sulla guancia, sentendo per la prima volta il caldo tocco di una donna sul suo viso.

«Perdonami, ti prego, non avrei mai dovuto parlarti così. Hai ragione, quando Djoser mi ha comunicato il messaggio di tuo padre Ra io ho creduto che fosse la mia grande occasione per dimostrare al mondo chi fossi, per rivalermi della sua indifferenza, per, per dimostrare che esisto e che valgo. L’idea di salvare l’Egitto non mi ha neanche sfiorato. Forse è vero che sono un mostro» disse, sentendo scorrere sul suo viso morbide, salate lacrime.

«Forse. Forse lo siamo entrambi. Hai ragione anche tu, Essei, non mi è mai importato nulla di voi mortali, vi ho sempre trovati fastidiosi ed inutili e non ho mai capito perché mio padre e mia madre vi amino tanto. Se sono qui è solo perché me lo ha chiesto mia madre Hathor, non per amore vostro» disse Anuket, asciugando con dolcezza, una dolcezza che mai aveva provato prima, le lacrime di Hersa Essei che la guardò con così tanto amore da farle tremare il cuore «È vero anche che puzzi di morto però! Guardati, hai la veste zuppa del cervello di Ammit»

Hersa Essei fece un passo indietro guardandosi imbarazzato la veste: «Oh, mio dio, che schifo! Voltati» disse facendo per togliersi la veste ma Anuket lo fissò con il suo solito sorriso beffardo «E dai voltati! Per favore!»

Anuket scoppiò a ridere e si voltò, tornando al suo posto a prua pensando tra sé e sé, come parlando con l’orizzonte:

«eccomi qui, a risalire un fiume su una barca come una mortale, in compagnia di un giovane sacerdote, un pallone gonfiato eccentrico e presuntuoso ma anche timido, coraggioso e bello come il sole. Mio padre ha uno strano senso dell’umorismo, non ci sono dubbi su questo!»

 I giorni successivi trascorsero tranquilli, anche se fecero entrambi di tutto per cercare di evitarsi, per quanto possibile in una imbarcazione non proprio grande, confusi dai sentimenti che cominciavano a sentire crescere l’uno per l’altra e a cui non riuscivano a dare un nome, chiusi come erano, ognuno nel proprio io, nella propria solitudine, nel proprio deserto, da tanto, troppo tempo.

La mattina del sesto giorno, quando Hersa Essei si svegliò, si accorse che l’imbarcazione era ferma, mettendosi in allarme.

«Anuket!» chiamò scattando in piedi preoccupato, non vedendola ma senza avere risposta «Anuket, dove sei?» chiamò salendo sulla prua dove normalmente lei stava.

«Sono qui, dietro di te. Sei un po’ apprensivo, te lo avevano già detto?»

Hersa Essei si girò di scatto vedendola improvvisamente dietro di sé con in mano un cesto di frutta fresca ed il suo solito sorriso ironico. «Divertente, davvero! Non dovresti scomparire così senza dirmi niente, se ti fossi trovata in pericolo come avrei fatto ad aiutarti?» La rimproverò andandole incontro imbronciato.

«Tu ancora non hai capito chi sono, vero? Sicuro di essere quello intelligente tra tutti i sacerdoti di Thot? Comincio a dubitarne! Tieni, mangia, hai bisogno di un po’ di zuccheri, ti faranno bene al cervello!» Disse Anuket, sedendosi, invitandolo a fare altrettanto con lo sguardo.

Hersa Essei arrossì, sedendosi in silenzio e cominciando a mangiare quelle delizie che gli sembrarono ancora più dolci pensando che Anuket le aveva colte per lui. «Grazie» disse infine, alzando timidamente lo sguardo su di lei.

«Non ti montare la testa più di quanto non lo sia già: mi servi sano e forte, tutto qui» rispose Anuket alzandosi per tornare alla prua ma Hersa Essei le prese la mano e la trattenne, alzandosi a sua volta, restando a fissarla negli occhi senza dire nulla, in estasi davanti alla bellezza dell’Universo racchiuso nelle sue iridi di luce, respirando estasiato quell’istante di eterno.

Anuket lasciò che si perdesse in lei sentendo che solo attraverso l’innocenza di quell’uomo sarebbe riuscita a ritrovarsi, ma non ne resse a lungo l’emozione di quell’attimo di eterno.

«Ti va di visitare l’oasi di Kargha? Scommetto che non ci sei mai stato» disse allontanandosi di un passo ma senza riuscire a lasciargli la mano.

«Sì, mi piacerebbe ma sei sicura che possiamo fermarci?» Rispose Hersa Essei, eccitato all’idea di visitare una delle oasi più rinomate e belle dell’intero Egitto.

«Un giorno nell’infinito è come una goccia nel mare. Andiamo!» Rispose Anuket, scendendo dalla barca con un salto, seguita da Hersa Essei, felice come un bambino.

L’oasi era veramente bella, con le sue palme da dattero, gli ulivi, i fichi gli albicocchi, rallegrata dal canto di numerosi e variegati uccelli.

Hersa Essei ne era affascinato, non sapendo dove guardare con i suoi immensi occhi aperti allo stupore mentre Anuket era invece affascinata da lui, cominciando a pensare che forse gli umani, in fondo, non erano poi così inutili e insignificanti come aveva sempre creduto.

Ma le cose belle durano notoriamente poco e la magia di quel momento venne interrotta da uno schiamazzo furioso proveniente dai rami degli alberi al centro dell’oasi seguito dalla fuga degli uccelli, terrorizzati.

«Che sta succedendo?» Chiese Hersa Essei, sguainando la spada e mettendosi istintivamente davanti ad Anuket per proteggerla.

«È Babi, e non è solo» rispose Anuket, sguainando a sua vola la spada.

«Babi il babbuino mangiatore delle anime dei malvagi? Ma che ci fa qui? Lui dovrebbe stare nel Duat!» esclamò più stupito che spaventato Hersa Essei.

«Sì, anche Ammit sarebbe dovuto essere in quella fogna ma a quanto pare quel simpaticone dello zio Seth ha deciso di farmi divertire un po’ con i suoi cuccioli immondi!» Rispose Anuket, irrigidendosi al sentire avvicinarsi Babi con i suoi feroci babbuini.

«Quanti sono, riesci a vederlo?» Chiese Hersa Essei.

«Sì, sono dodici e sono davvero pericolosi. Essei, devi tornare alla barca, non posso riportare a Thot un cadavere e non posso perdere tempo a salvarti: vattene!» Disse Anuket balzando con un salto contro un babbuino appena uscito dalla vegetazione che si era scagliato su di loro, tagliandogli di netto la testa.

«Te lo scordi, non ti lascerò tutto il divertimento!» Rispose Hersa Essei, schivando con incredibile agilità un altro babbuino che gli si era lanciato addosso urlando, per poi atterrarlo con un calcio piantandogli la spada tra le scapole.

«Attento!» Gridò Anuket, lanciando un coltello contro un babbuino che stava per colpirlo alle spalle prendendolo dritto al cuore.

«Bel colpo! Dove lo tenevi nascosto quel coltello?» Disse Hersa Essei, tagliando la testa ad un altro babbuino alle sue spalle.

«Una signora non rivela i suoi segreti!» Rispose divertita Anuket, uccidendo un altro babbuino appena saltato fuori dai rami.

Uno dopo l’altro li atterrarono tutti ma quando pensavano di avere vinto, Babi uscì dalle palme in tutta la sua gigantesca imponenza, terrificante, e senza che ebbero modo di reagire afferrò Anuket bloccandola e scomparve nuovamente tra le palme.

«Essei!»

«Anuket, Anuket!» Hersa Essei si sentì mancare, si inginocchiò, alzo la testa e le braccia al cielo e invocò il padre:

«Thot! Padre Thot, ti supplico, aiutami a salvarla, ti prego!»

Un Ibis Blu planò davanti a lui ed aprì le maestose ali. In quel momento Hersa Essei sentì un dolore lancinante alla schiena, come se le ossa stessero cercando di uscire fuori, costringendolo a piegarsi a terra e togliersi la maglia di lino, in preda ad un dolore così forte da fargli perdere i sensi per un attimo.

L’ibis Blu tocco con un’ala la spalla del ragazzo ed il dolore lasciò il posto a un paio di bellissime e larghe bianche ali da cigno.

«Vola, figlio mio, salvala» sentì dire nella sua mente riaprendo gli occhi, mentre l’Ibis tornava a volare verso il sole.

Hersa Essei si girò verso le ali incredulo ma il grido di Babi lo riportò alla realtà: «Ok, se mi hai dato le ali, mi avrai anche insegnato ad usarle!» disse Hersa Essei prendendo un bel respiro e rimettendosi in piedi. «Forza ragazze, datemi una mano, dobbiamo salvare Anuket!» disse alle ali, cominciando a prendere quota. «Wow, funziona! Grazie padre Thot!» urlò al cielo il ragazzo, volando ad incredibile velocità verso il punto dove sentiva gli schiamazzi di Babi, preoccupato di non sentire più la voce di Anuket.

Raggiunse rapidamente il centro dell’oasi dove ora c’era un lago infuocato e vide Anuket svenuta tra le braccia di Babi che stava per gettarla nel lago.

«Anuket, oh no, no!» gridò sguainando la spada e scagliandosi contro il babbuino colpendolo in volo dritto tra gli occhi, uccidendolo sul colpo ed afferrando poi il corpo privo di sensi di Anuket prima che rovinasse nel fuoco, portandola, volando più veloce che poteva, sulla riva del Nilo. L’adagiò a terra con delicatezza, richiudendo le ali dietro le spalle come se le avesse sempre avute, e si chinò su di lei.

«Anuket, svegliati, ti prego» ma lei non dava segni di vita ed allora, istintivamente, le tappò il naso, le aprì la bocca e le soffiò dentro.

Anuket spalancò gli occhi sentendo le labbra di Hersa Essei sulle sue e gli piantò uno schiaffone sulla guancia che gli lasciò un bel segno rosso sulla pelle candida.

«Anuket! Oh grazie a Thot sei viva!» disse il ragazzo attirandola a sé ed abbracciandola con forza. «Ehi, prima mi baci e poi mi abbracci, non ci starai provando! Non ci mettere testa, umano!»  esclamò Anuket, cercando di camuffare l’imbarazzo.

«È così che mi ringrazi per averti salvata da Babi?» Disse Hersa Essei un po’ indispettito.

«Salvare me? Sono immortale, ricordi?»

«Oh cielo, sei proprio impossibile!»

«Si, per te sono decisamente impossibile, umano! Comunque, giusto per curiosità, come hai fatto a liberarmi da Babi?»

Hersa Essei aprì le sue belle ali nuove con orgoglio. «Ho chiesto a Thot di aiutarmi a salvarti e mi ha donato queste».

Anuket sbiancò, riuscendo adesso a percepire il dolore che quella modificazione repentina del suo corpo gli aveva procurato.

«Come ti senti?» chiese avvicinandosi a lui preoccupata, prendendogli il polso per misurargli la temperatura e i battiti.

«Bene, sono solo un po’ stanco» rispose Hersa Essei, sentendosi venire meno le forze.

“Hai la febbre alta, altro che bene! Dannato Thot, ma che ti passa per la testa, l’avresti potuto uccidere!” Pensò Anuket, prendendolo sotto braccio ed accompagnandolo sulla barca, dove lo fece sdraiare sul suo giaciglio, lo coprì e, ponendogli una mano sul capo, lo fece cadere in un sonno ristoratore.

Al risveglio la febbre era passata, lasciando il posto ad una gran fame, ma il primo pensiero di Hersa Essei fu Anuket. Si alzò e le andò incontro sulla prua, dove era seduta, bellissima e malinconica con lo sguardo fisso davanti a sé «Cosa è successo?» chiese, sedendosi accanto a lei.

«Sei svenuto, avevi la febbre alta ma ora stai bene, ti ho guarito. Dimmi la verità, quanto dolore hai provato quando Thot ha mutato il tuo scheletro per darti le ali?» chiese lei, girandosi, guardandolo con i suoi bellissimi occhi verdi.

«Non è stato piacevole, ma l’importante è che ha funzionato. Vederti portare via da Babi, ecco, io, io dovevo fare qualcosa» rispose Hersa Essei, sentendo sempre quella meravigliosa sensazione di infinito entrando nei suoi occhi.

«Fare l’eroe ti stava costando la tua unica vita mortale. Comunque, adesso hai un bel paio di ali, vedi di farne buon uso. Non hai fame?»

«Sto morendo di fame!»

Anuket gli indicò il tavolo al centro della barca, pieno di ogni bontà, pane, formaggio, frutta, miele, datteri.

«Wow! Grazie! Posso?»

Anuket annuì, donandogli un bellissimo sorriso, lasciandolo ancora più attonito davanti a tanta rara bellezza.

«Dovresti sorridere più spesso, l’Universo te ne sarebbe grato» disse Hersa Essei prima di fiondarsi sulla tavola, mentre Anuket, sospirando debolmente, tornò a guardare davanti a sé, sentendosi per la prima volta, nella sua lunga esistenza, piccola e fragile, proprio come un’umana.

Dopo qualche giorno di tranquilla navigazione finalmente arrivarono ai piedi delle Montagne della Luna, un gruppo di sei massicci montuosi sulle cui cime vi erano i numerosi ghiacciai che alimentavano il Nilo. Le cime erano avvolte perennemente da una fitta nebbia a causa dell’elevata umidità, conferendogli un aspetto drammatico e spaventoso «dovremo proseguire a piedi da qui in poi.

«Il ghiacciaio dove è tenuto prigioniero Hapi si trova lassù, sulla cima più alta. Preparati, sarà una lunga camminata» disse Anuket ma Hersa Essei si aprì in un radioso sorriso:

«Dimentichi le mie ali! Se permetti, mia Signora» disse avvicinandosi e prendendola tra le braccia. «Non vorrai scalare in volo cinquemila metri di parete con me in braccio?» Chiese Anuket, mettendogli però le braccia intorno al collo.

«L’idea è quella! Tieniti forte!» Rispose Hersa Essei, aprendo le maestose ali e alzandosi rapidamente in volo.

«Sei bravo! Sembra che ci sei nato» disse Anuket, ridendo divertita.

«Imparo in fretta, come dice sempre padre Thot. Sei bellissima, lo sai, io lo so che tu lo sai, ma dovevo dirtelo lo stesso» disse Hersa Essei, sorridendole a sua volta, volteggiando felice come non si era mai sentito prima, sentendo per la prima volta il suo cuore volare.

Ma quell’idillio durò poco.

Arrivati sul ghiacciaio Apopi, il gigantesco serpente, incarnazione delle tenebre e del male li accolse scaraventando la sua enorme coda su di loro.

«Essei! Attento!» Gridò Anuket, scagliandolo con la sua potenza a terra prima che la coda di Apopi li colpisse, restando sospesa in cielo dalla parte opposta.

«Essei!» chiamò, ma il ragazzo cadendo aveva sbattuto la testa e ora giaceva a terra privo di sensi, ma vivo.

«Maledetto bastardo, a noi due!» Esclamò Anuket, sfoderando la sua spada

«Tu, Anuket? Deve tenerci poco all’Egitto tuo padre se ha mandato te. Sinceramente pensavo di divertirmi un po’ con quella bella panterona di Seshat o quantomeno con la sinuosa gatta Bastet, non mi aspettavo certo la più schiva e disinteressata delle figlie di Ra» la provocò Apopi.

«Per uno stronzo strisciante come te non serviva sfoggiare l’artiglieria pesante, basterò io a staccarti quella viscida testa!» Rispose Anuket attaccandolo, dando così il via ad una terribile battaglia dove diede dimostrazione del suo incredibile valore, mettendo in difficoltà la più temuta delle bestie infernali.

Quando, pochi minuti dopo, Hersa Essei riprese coscienza e vide Anuket lottare contro quell’enorme bestione, si drizzò immediatamente in piedi ed urlò più forte che potè:

«Anuket, resisti, arrivo!» Ma fu un tragico errore.

Anuket si girò verso di lui terrorizzata: «No Essei, vai via, scappa!»

Apopi vide in quel attimo di sguardi l’amore che li legava e non si fece scappare l’occasione di volgere la situazione a suo favore, garantendosi quella che sembrava essere fino a quel momento una vergognosa sconfitta afferrando repentinamente con la coda Hersa Essei e stringendolo in modo che potesse a stento respirare.

«Essei! Lascialo Apopi, è solo un mortale, non fare il vigliacco!» Urlò Anuket, sentendosi salire le lacrime agli occhi.

«Già, solo un umano, è vero. Eppure sembra che ti importarti molto di lui» sibilò Apopi, fissandola con i suoi occhi glaciali.

«Questa è una faccenda tra noi due, lui non c’entra, lascialo andare e combatti!» Insistette Anuket.

«Ho un’idea migliore. Ti propongo un accordo: o decidi di salvare il mortale e ve ne andate insieme ma Hapi resta qui, oppure decidi di salvare l’Egitto liberando Hapi lasciandomi uccidere il mortale» disse freddamente Apopi, assaporando già il gusto della vittoria.

«Anuket, non pensarci, libera Hapi, salva l’Egitto e lasciami al mio destino, è la cosa giusta!» disse Hersa Essei, incrociando il suo sguardo.

«Cosa? Vorresti davvero sacrificarti? Perché? Hai una sola vita!» Disse Anuket, mentre morbide lacrime cominciarono a scivolare sul suo bel viso.

«Perché attraverso te ho conosciuto l’amore ed ora sono pronto ad affrontare la piuma di Maat» rispose Hersa Essei, cercando di imprimere quel viso tanto amato nei suoi occhi per portarlo per sempre con sé nel suo viaggio nel Duat. Ma avrebbe dovuto aspettare ancora per intraprendere quell’ultimo viaggio.

Anuket si asciugò le lacrime, si girò fiera verso Apopi e piantò con forza la spada di Ra nel ghiaccio. «Non sceglierò nessuna delle due soluzioni ma te ne propongo una terza, molto più vantaggiosa per te: libererai il mortale e anche Hapi ed in cambio porterai me, Anuket, figlia amatissima di Ra e Hathor, come trofeo al tuo signore, Seth, che te ne pare?»

Apopi si illuminò «E sia! il mio signore sarà felice di averti come sua schiava personale!»

Hersa Essei si sentì morire: «No! Non lo fare, ti prego! Lascia che mi uccida, libera l’Egitto dalla piaga della siccità e torna libera, ti supplico!» gridò, cercando invano di liberarsi dalla morsa del serpente.

«Non posso Essei, non posso perché anche io ora conosco l’amore, tu me lo hai insegnato e te ne sarò per sempre grata. Addio Essei» disse Anuket librandosi in volo verso il serpente che, con una testata, spaccò il ghiacciaio dove era tenuto prigioniero Hapi e, contestualmente, liberava Hersa Essei per afferrare Anuket; ma il sorriso si spense presto sulla sua mefitica faccia: Hersa Essei aprì le ali e con una velocità e una destrezza che lasciò Anuket senza fiato, piantò la spada di Ra al centro della testa del rettile che rovinò a terra esanime con un tonfo che fece tramare tutta la montagna.

«Anuket!»

«Essei!»

«Ehi, ragazzi, qualcuno mi darebbe una mano ad uscire da questo buco? Fa un po’ freddino quaggiù»

Entrambi si girarono verso il ghiacciaio da cui emergeva una mano e si precipitarono a fare uscire Hapi.

«Finalmente! Ce ne ha messo di tempo tuo padre a fare qualcosa! Grazie Anuket, sei sempre più bella, lo sai, figliola? E grazie anche a te… umano?!» Chiese Hapi, gettando un’occhiata confusa alle ali di Hersa Essei.

«Sì, si sono umano».

Hapi scosse la testa ridendo «Beh, devo essere stato lì sotto più a lungo di quanto pensassi se gli umani hanno messo le ali!»

«Sette anni e per l’Egitto sono stati anche troppi: c’è bisogno di te adesso» rispose Anuket.

«Nessun problema tesoro, con vero piacere!» rispose il buon vecchio Hapi, allargando le braccia verso il cielo dove immediatamente si addensarono nuvoloni neri carichi di pioggia, riempiendo tutto il cielo d’Egitto.

«A te l’onore, bambina mia»

Anuket sorrise alzando l’indice verso il cielo, squarciando con un lampo il cielo che si aprì riversando la tanta desiderata pioggia su tutto il Paese.

«Si! Ci siamo riusciti, l’Egitto è salvo!» Disse Hersa Essei abbracciandola.

«Per essere un umano non sei niente male» disse Anuket, portandogli le braccia al collo. «Neanche tu come Dea sei niente male» rispose Hersa Essei perdendosi nei suoi occhi. «Anuket, io ti amo e anche se sono solo un mortale e so che…»

«Che parli troppo? Si, è vero! Zitto e baciami» lo bloccò Anuket, ed Hersa Essei non se lo fece ripetere, trovando l’agognata immortalità sulle sue labbra, dolcemente bagnate dalla poggia.

«Cielo, quanto sono belli, vero?» Disse Ra, prendendo la moglie Hathor sottobraccio, mentre gettava un’occhiata ammiccante a Thot, commosso e felice per il suo ragazzo.

«Si, adorabili, davvero. Ra, amore mio, hai la più vaga idea di quello che hai combinato?» Rispose Hathor, gettandogli un’occhiata al vetriolo.

«Si certo, ho salvato l’Egitto ed il cuore di nostra figlia: sono stato bravo?»

Hathor portò gli occhi al cielo e sospirò: «Si, tesoro, bravissimo, se non fosse che il cuore di nostra figlia si spezzerà presto, considerato che si è innamorata di un mortale e che la pace in Egitto finirà appena l’ira di Seth avrà preso forma, visto che gli hai ucciso i suoi migliori soldati».

Ra gettò un’occhiata a Thot che, prontamente, intervenne in suo aiuto, come sempre: «Mia Signora, alla mortalità c’è rimedio, se Ra vorrà, ovviamente, e per quanto riguarda Seth, beh, non puoi negare che anche a te non dispiace avergli fatto mangiare il fegato»

Hathor sorrise e Thot continuò, ammiccando a Ra «A Seth penseremo quando sarà il momento, godiamoci adesso questo momento di gioia. Guarda mia Signora quanta felicità ha portato l’amore di quei ragazzi» disse Thot, indicandogli la gente che ballava e cantava ridendo, abbracciandosi e baciandosi sotto la pioggia in tutte le strade d’Egitto.

«Hai ragione, come sempre, amico mio. Beh, tesoro, che ne dici di festeggiare anche noi, in privato?» Disse Hathor, prendendo la mano del marito.

«Ogni tuo desiderio è un ordine, lo sai mia cara!» Rispose Ra con un sorriso radioso.

«Ehi, aspetta, ed il mio ragazzo?» Chiese Thot «le ali le ha già, al resto penserò io, stai sereno, si è meritato l’immortalità e poi tu cominci ad invecchiare, ti serve un po’ d’aiuto» rispose Ra schiacciandogli l’occhio prima di scomparire con la moglie.

Thot tornò a guardare Anuket e Hersa Essei, abbracciati sotto la pioggia, felici ed innamorati e sorrise: «Non avete salvato l’Egitto con la spada ma con il cuore: sono orgoglioso di voi, ragazzi miei. Lunga vita e prosperità a voi e a tutto l’Egitto» disse prima di tornare Ibis e volare fino al terrazzo dove Djoser guardava a quel miracolo abbracciato alla moglie.

«Com’è bella la pioggia, quanta vita è racchiusa nelle sue infinite piccole gocce!» Disse Djoser. «Hai avuto fede e Ra ti è venuto in aiuto. Ora puoi dirmi cosa ti ha detto in sogno?» domandò la moglie, accarezzandogli il viso con amore.

«Mi ha ricordato che le risposte alle nostre domande sono sempre dentro di noi. La siccità era nei nostri cuori. Per riportare la vita l’unica soluzione era fare tornare l’amore tra cielo e terra. Così io ho pensato al nostro Hersa Essei, il giovane sacerdote adottato da Thot dal cuore duro come marmo come rappresentante della terra, e Ra ha pensato a mia sorella Anuket, Dea del Nilo dal cuore ancora più granitico del suo come rappresentante del cielo. Se quei due fossero riusciti ad innamorarsi, allora cielo e terra si sarebbero ricongiunti e, da come il cielo sta buttando acqua a secchiate, direi che è andata bene!» Rispose Djoser, guardando ridendo la fitta pioggia.

«Alla fine è sempre l’amore a salvarci» disse Hetephernebti, attirando il marito dentro casa.

«Ti amo, mia sacra sposa, tu sei la mia salvezza» rispose Djoser, seguendo la moglie nel talamo nunziale.

L’Ibis Blu aprì le maestose ali e tornò a volare sulla terra d’Egitto, incontro al sole, lasciandosi alle spalle sette anni di siccità e tornando finalmente alla vita in un abbraccio pieno di speranza, sapendo che l’oscurità era sempre in agguato e che Hathor aveva ragione: Seth non se ne sarebbe stato a guardare tanto a lungo. Ma per adesso non aveva voglia di pensarci, voleva solo godersi l’incanto di quel momento «Lunga vita all’Egitto!» Pensò Thot, prima di scomparire nel sole di quel nuovo giorno.